lunedì, ottobre 24, 2011

giovedì, ottobre 20, 2011

ESPRIMERE

Tutto scorre,
Echeggiano urla!
Disattenti....inciampiamo, e ricominciamo il cammino di sempre......
Consapevoli del nostro essere, ma schiavi del nostro ego.....dellle nostre abitudini....
Nel parlare,nel discutere,nell'amare,riusciamo o perlomeno abbiamo la volontà di esprimere ciò che veramente siamo?
Sappiamo veramente chi siamo?
Qual'è la vera intenzione del nostro essere?
Quali sono le fonti della nostra apparente felicità?
Succede.....tutto tace.
Le nostre maschere sfilano come sempre.......
Le miglioriamo raffinandole abbellendole ci compiaciamo a mostrarle..............
Burloni di NOI stessi!
Viviamo......o ci lasciamo vivere?
E' difficile....faticoso......rivelare la nostra vera identità.....Dovremmo buttare strati e strati di maschere.
Più facile non RIVELARCI....e... far parte del "GREGGE"
 JOLIE
























sabato, ottobre 15, 2011

DIO MIO!



Chi può......... chi vuole.......chi ha potere.......

FORSE


Può ESSERE presente.....

GRAZIE...................

giovedì, ottobre 06, 2011

V.I.T.R.I.O.L.

"...e fin quando non avrai la saggezza, muori per divenire, sarai soltanto un triste ospite su questa terra oscura."
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"Colui che vuole entrare nel regno divino, deve prima entrare nel corpo di sua madre, e morirci."
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"Chi guarda in uno specchio d’acqua, inizialmente vede la propria immagine. Chi guarda se stesso, rischia di incontrare se stesso. Lo specchio non lusinga, mostra diligentemente ciò che riflette, cioè quella faccia che non mostriamo mai al mondo perché la nascondiamo dietro il personaggio, la maschera dell’attore. Questa è la prima prova di coraggio nel percorso interiore. Una prova che basta a spaventare la maggior parte delle persone, perché l’incontro con se stessi appartiene a quelle cose spiacevoli che si evitano fino a quando si può proiettare il negativo sull’ambiente."
 
 
L’acronimo V.I.T.R.I.O.L.U.M., che viene usato nella letteratura alchemica, è formato dall’espressione latina Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem Veram Medicinam, che significa “Visita l’interno della terra, e rettificando troverai la pietra nascosta che è la vera medicina”. Siamo quindi invitati a discendere nella terra, negli inferi, nell’inconscio. La terra è il simbolo dell’uomo fisico. L’uomo deve prendere coscienza del suo mondo interiore, di chi è, cosa sta facendo, quali sono le sue motivazioni eccetera. Una volta rivolta l’attenzione verso l’interno, si scoprirà un mondo nuovo: gli inferi dell’Ade, il regno oscuro delle ombre e dei mostri. Questa discesa viene anche chiamata regressus ad uterum, “ritorno nell’utero”, un termine che viene spesso usato nei riti d’iniziazione. È un ritorno simbolico a un particolare stato primordiale dell’essere che accomuna ogni uomo nell’inconscio collettivo.
Nel profondo dell’uomo, nell’oscurità della sua psiche, risiedono i moventi delle sue azioni. Dunque il regressus ad uterum, il prendere coscienza di questi moventi profondi, è una condizione necessaria per entrare nella zona di morte illuminata dalla luna, e successivamente sperimentare la rinascita. Terra Mater, la Madre Terra, è sempre stata collegata alla nascita, con l’unione tra uomo e donna (conscio e inconscio); unione dalla quale la nuova vita sgorgherà dopo la morte. I popoli primitivi svolgevano le loro iniziazioni al buio o sottoterra, ad esempio nelle grotte. In Egitto, le iniziazioni si svolgevano nelle piramidi o nelle cripte interrate dei templi. In Persia si usavano principalmente nelle grotte, mentre gli indiani d’America avevano apposite capanne. I misteri di Mitra venivano eseguiti in templi costruiti sottoterra. La stessa iniziazione era simboleggiata dalla penetrazione della pancia della Grande Madre, o del corpo di un mostro marino o animale selvatico.
Nella mitologia greca, Orfeo discese nell’Ade per cercare Euridice (il simbolo della sua anima perduta). Il Dio hindù Krishna discese negli inferi per cercare i suoi sei fratelli (i sei chakra, essendo Krishna il chakra della corona). Dice una leggenda che, dopo la sua morte, anche Gesù discese nel regno di Satana per salvare l’anima di Adamo (l’uomo puro).
Nell’alchimia, l’entrata dell’inconscio è spesso rappresentata dall’entrata delle grotte, da racconti di viaggi negli inferi o strani luoghi lugubri del mondo. Talvolta si trova negli scritti alchemici la rappresentazione del re che si fa il bagno. L’acqua, alchemicamente parlando, rappresenta proprio l’inconscio. Il Re, che è invece la nostra coscienza, vi si immerge proprio per venire a contatto con i suoi contenuti e così portarli alla luce, alla propria coscienza. Un altro modo in cui questo contatto tra coscienza ed inconscio viene rappresentato è il simbolo della “coniunctio” (congiunzione) o “concepito” (concezione) tra il Re e la Regina, che avviene principalmente nell’acqua, in una sorgente o in una fontana. La Regina quindi rappresenta il femminile, l’acqua, l’inconscio.
La discesa nell’inconscio non è priva di pericoli. In senso psicologico può ad esempio sfociare nella schizofrenia. Nella mitologia, l’eroe penetra gli inferi per lottare contro mostri e demoni. La Grande Madre gli appare sotto forma di un essere terribile, spesso il Signore della Morte. Per il suo coraggio e la sua audacia, la Grande Madre, Dea della fertilità, gli offre grande conoscenza e grande saggezza.
Quando nell’alchimia si lavora con i metalli (così vengono chiamate le passioni e le emozioni dell’uomo), il piombo viene usato come materiale iniziale. Gli alchimisti dicono che nel piombo vi è un demone che può causare la pazzia. Il piombo è sotto il dominio di Saturno, il Dio della malinconia, che causa disturbi e visioni demoniache. Il piombo, il più impuro dei metalli, deve essere trasformato nel metallo puro, l’Oro, simbolo dello Spirito. In generale, il piombo rappresenta le passioni inferiori e più terrene dell’uomo. E’ su di loro che l’alchimista opera, rettificandole (rectificando) e sublimandole sempre più. Cosa significa questo? Ce lo spiega un testo del Taoismo moderno: “Ecco perché Buddha Jou-lai (Tathagata), nella sua grande misericordia, ha rivelato il metodo, il lavoro alchemico del Fuoco, e ha insegnato al popolo a rettificare la propria vera natura e pienezza”.
“Rectificando”, al centro dell’acronimo VITRIOLUM, significa “correggere” gli aspetti negativi della propria psiche, purificare le emozioni negative. Serve a drizzare ciò che è cresciuto storto durante la vita. L’alchimista deve purificarsi da tutta la “sporcizia”, da tutte le sue “scorie”. Deve lavare “il corpo” per migliorarlo e perfezionarlo. I metalli devono essere purificati da “elementi esterni impuri e distruttivi”. I metalli in questo caso possono essere interpretati come emozioni. Il Taoismo sottolinea l’importanza della purificazione dalle tendenze egoistiche che separano l’uomo dalla sua natura eterna. Un uomo che si sforza d’ottenere il Tao deve rinunciare alla brama e al desiderio e divenire un bambino che si unisce al Tao. Con questa purificazione, avviene la rinascita. Pertanto un alchimista deve rifuggire le masse e iniziare il processo di meditatio, auto-riflessione, in silenzio.
Anche il Buddhismo insegna la purificazione. L’uomo può arrivare alla salvezza separandosi dalle faccende mondane che lo fanno deviare dal suo vero sentiero. Egli vede che la vita terrena di per sé non è soddisfacente. L’uomo è insoddisfatto perché i suoi desideri sono senza limiti. Deve liberarsi dalle catene dei suoi desideri.
Entrare nell’inconscio significa anche entrare nell’inconscio collettivo che tutti condividiamo. Nella mitologia greca vi era il Tartaro, nome originariamente usato per indicare gli inferi. Il Tartaro è il mondo psichico nel profondo dell’uomo, dove risiedono tutti gli istinti inferiori, come la brama di uccidere e distruggere, la sete di sangue, la paura, l’odio, la vendetta, il desiderio di potenza eccetera. Non è facile da ammettere a se stessi, ma tutte risiedono in noi. Abbiamo represso tutte le nostre emozioni oscure confinandole nel profondo regno del Tartaro. Questa è l’eredità umana, risalente a tempi antichi.
È compito dell’uomo conoscere, sentire ed essere responsabile di tutte le proprie emozioni. Esse non devono essere semplicemente represse, poiché così facendo si otterrebbe l’unico effetto di “comprimerle” in qualche angolino della propria psiche, dal quale potrebbero emergere quando meno ce le aspettiamo. Vanno invece sublimate, cambiate e trasmutate in sentimenti più elevati. La repressione incatena l’uomo proprio agli oggetti che reprime, ma la purificazione li trasmuterà in elementi positivi, portandolo più vicino alla sua vera essenza. Fin quando non intraprenderemo consapevolmente la Grande Opera, dolore e sofferenza disturberanno le nostre vite. Dobbiamo affrontare i mitici mostri nella profondità del nostro inconscio e illuminarli. Essi fanno parte dell’essere umano. Non possiamo scartarli, ma possiamo controllarli, dominarli, imparare da loro, e trasformarli in servitori del Divino. I mostri non sono mostri di per sé. Sono soltanto caratteristiche della natura umana che sono state distorte o che quantomeno non ci sono più utili. Noi possiamo rettificarle ed utilizzarle a nostro vantaggio, per ascendere alla Consapevolezza del Sè.
Questo compito non è per l’aspirante iniziato. È soltanto per gli audaci che osano affrontare l’oscurità dell’anima. Il coraggio di molti fallirà, ed essi torneranno a casa. Perciò il pellegrino non intraprende un sentiero facile, perché il mondo del piacere non è più suo. Egli ha scelto il percorso di Arete (Dea della Virtù), che lo porta verso molti pericoli e strade difficili, in solitudine e con fatica, ma infine diverrà immortale. Chi perderà la vita, la otterrà.
Se sei davvero deciso a trovare il Tao, puoi farlo anche quando sei in una città e hai una posizione di rilievo in faccende mondane. Questo non è contraddittorio. Il lavoro è semplice e vicino, il segreto è così semplice, che, se fosse rivelato, vi sarebbero risate tutt’intorno.
 

Da Esopedia

martedì, ottobre 04, 2011

DIPENDENZA NASCOSTA

Quando si parla di nuove dipendenze, ci sovvengono subito una serie di attività ed oggetti che predispongono a questo tipo di legame, vedi ad esempio la dipendenza da lavoro, da sesso compulsivo, da shopping compulsivo, da gioco d’azzardo, da cellulare, da internet, ecc. Troppo spesso però, ci dimentichiamo dei minori e del loro rischio di sviluppare una dipendenza. Non si sa per quale strano motivo, li sentiamo al sicuro rispetto a questa problematica. In realtà sono, altrettanto o maggiormente predisposti, rispetto all’adulto. Il bambino e l’adolescente corrono il rischio di sviluppare dipendenza, rispetto a vari strumenti: al cellulare, alla TV, ad internet, ai videogiochi, ecc.

Com’è stato ribadito più volte, la dipendenza non nasce da uno specifico oggetto, bensì da una specifica relazionale fra l’individuo e una qualunque attività o elemento, atto a produrre su di lui un certo effetto, che può essere di piacere, di evasione, ma anche di riempimento (in termini di tempo, spazio, di stimoli, di sensazioni, ecc.), di consolidamento rispetto alla propria struttura, di rassicurazione, ecc.


Fra l’individuo e questi oggetti, si stabilisce un vincolo di forte bisogno, connesso al senso della propria identità, dell’immagine di sé, del proprio sentire, ad un livello tale che, in loro assenza si sperimenta un profondo vuoto e senso d’inadeguatezza. Diventa legame di dipendenza, al pari di quello con una droga. Senza non si può vivere, niente ha un senso o valore. L’oggetto stesso diventerà motivo fondamentale, obiettivo di lavoro primario, significato di vita. S’instaura una sorta d’innamoramento esclusivo, un’ossessione, non si può fare a meno di pensare, investire, cercare ed utilizzare quel dato oggetto, al di là della propria volontà. E’una sorta di coercizione cui è soggetto l’individuo, una forza irresistibile, che pur appartenendo a lui stesso, trova ragione al di fuori di lui.


Cercare ed utilizzare quel dato oggetto, assume la stessa forza e la stessa prepotenza dei rituali ossessivo-fobici: quali lavarsi le mani,controllare il gas, la serratura, ecc. Si evidenzia l’illusione magica o l’estremo tentativo, di controllare le cose ed il mondo a cui appartengono (esterno ed interno) e la contrastante realtà di prigionia, soffocamento, assenza di libertà.La dipendenza più propriamente psicologica infatti, descrive il legame di sottomissione, verso una persona, un gruppo, una sostanza o oggetto, il relativo comportamento adesivo, condiscendente, con il corrispondente stato emotivo di prostrazione e autosvalutazione.


Si riscontra la mancanza d’autonomia e di potenzialità decisionale, un’idea di sé sminuita, costituita dalla visione d’individuo incapace, fragile, vittima bisognosa. Si è disposti a qualsiasi cosa, non si vede altro, al di là di ogni ragione e realtà. Aggiungiamo poi che, il bambino e l’adolescente, sono naturalmente dipendenti dall’adulto.


L’assoluta dipendenza infatti, è la condizione comune al momento della nascita, in cui si necessita del sostegno concreto, per soddisfare i bisogni basilari (fame, sete, riparo, protezione) e del sostegno emotivo, per soddisfare i bisogni della psiche (costanza dell’oggetto, stabilità emotiva, formazione della fiducia, coerenza nel senso di identità, ecc.). Gradualmente poi, nel processo di crescita, si riscontra una crescente autonomia e individuazione, con una conseguente riduzione del bisogno totale.


Tutto ciò rende il minore più fragile e predisposto ad appoggiarsi ad elementi esterni, per sostenere la propria individualità e decisionalità. Questo è il motivo per cui un insegnante o una figura parentale, diventano oggetto di forte identificazione nell’infanzia, il gruppo dei pari assume molto potere durante l’adolescenza, ecc. Allo stesso modo, altri elementi possono costituire fonte di forte investimento: un’idea, un comportamento, la moda, il look, un certo sport, un oggetto, la scuola, ecc.


Tutto quello che può incrementare il senso di stabilità, di appartenenza, di serenità, d’identità e di appagamento, sarà soggetto ad eccezionale investimento. Questo processo, naturale e fisiologico, diventa pericoloso e dannoso, nel momento in cui non vi sia un bilanciamento con altre attività, interessi ed investimenti. Quando cioè quello specifico oggetto diventa fonte esclusiva di attenzione e relazione, senza il quale, ci si sente persi ed inutili: allora si è creata una dipendenza.


Pensiamo ad esempio all’uso del cellulare presso gli adolescenti o i bambini. Come già discusso altrove (Costantini, 20/03/8; 07/07/07) questo strumento è diventato oggetto esclusivo ad un’età sempre più precoce, con un utilizzo ossessivo e ansiolitico. Lo stesso vale per internet, che vede affacciarsi un pubblico sempre più giovane ed emotivamente inesperto. Per non parlare poi dei dati relativi alla Tv, alle ore trascorsevi in condizione di passività, o ancor peggio delle ore complessive impiegate davanti ai vari media (TV, internet, video giochi, ecc.). In Europa, la media stimata di un consumo multiplo, si aggira su 4 ore e 15 minuti giornaliere (Riccardo Petrella).


Guardando questi dati, sembra proprio che la tecnologia abbia fatto breccia, abbia sfondato la cortina di attenzione e abitudine dei giovani e giovanissimi, insinuandosi silenziosamente nella loro quotidianità, nei loro giochi, nel tempo, nello spazio della loro individualità e socialità. In quest’ottica, mettiamo particolare accento sui videogiochi, perché più di altri oggetti, sembrano passare inosservati al vaglio genitoriale. Tutti i bambini possiedono la play station, il game boy tascabile, la possibilità di connettersi su internet, ecc. E’ un fenomeno comune e nessuno vi fa più caso, il gioco “video” sembra ormai universalmente e acriticamente accettato.


Cominciamo a guardare più da vicino i dati, che rappresentano una prima descrizione della realtà che ci circonda. Da un’indagine recente (Dire) emerge che il 46% dei ragazzi italiani, utilizza i videogiochi almeno una volta al giorno e il 12% anche a più riprese. La durata media d’uso è di un’ora al giorno, il 20% dei minori arriva anche a due ore. Ma, l’elemento maggiormente sorprendente è l’età d’inizio: un bambino su quattro ha iniziato a partire dai tre anni, mentre solo il 10% ha iniziato fra i 13 e i 17 anni.


I dati relativi ai genitori inoltre, ci dicono che il 40% ammette di non riuscire a far smettere i propri figli e il 60% non conosce o non ha mai sentito parlare del Pegi (il sistema di classificazione dei giochi adottato in Italia, che indica età consigliata e contenuto per ogni gioco). Tutto ciò, evidenzia la diffusione di tale mezzo e la disinformazione circa la sua portata, lasciandoci supporre una sorta di sottovalutazione del problema. Il videogioco infatti, così come la TV, ormai fa parte della casa, dell’arredo, della dotazione di ogni famiglia ed è impensabile non averne a disposizione. Ci dimentichiamo quindi, di andare a verificare cosa questi mezzi realmente rappresentino, la loro trasformazione nel corso del tempo e nella vita di ciascuno di noi.


All’età di 3 anni il bambino dovrebbe giocare con le parole, con il proprio corpo, manipolare oggetti e materiali vari, giocare con le figure di riferimento, con i coetanei ed invece lo ritroviamo incollato ad un video, succube delle immagini. Anziché immergersi in un processo attivo ed esplorativo, fondamentale per la sua crescita intellettiva, emotiva e relazionale, si sottopone passivamente ad un bombardamento insano.


Uno studio tedesco (Berlino, 24 luglio 2007) su un campione di 7000 soggetti anche minori, ha verificato che, un giocatore su dieci presenta un’eccessiva quantità di dopamina nel proencefalo. Infatti, l’uso di giochi da PC o internet crea una “memoria del piacere”, analogamente a quanto avviene con l’alcool e le droghe leggere. Inoltre, nei giocatori accaniti, che trascorrono fino a 20 ore giornaliere, sono stati individuate visibili difficoltà, nel vivere una vita sociale normale (disturbi del sonno, attività quotidiane disturbate, ecc.).

Questa, come altre ricerche, dovrebbero indurci a riflettere su quanto realmente accade attraverso questi strumenti, che hanno il potere di produrre delle sostanze specifiche nel nostro sistema nervoso, tali da renderci vulnerabili e dipendenti. I videogiochi, non sono affatto un intrattenimento neutro e innocuo, ma un potente induttore di “piacere chimico”, al pari di sostanze quali eroina, cocaina, cannabis, ecc. Come tale, hanno il potere di indurre dipendenza e di modificare profondamente lo stile di vita, relazionale e sociale.


Analizzando più a fondo le dipendenze specifiche da internet (IAD o internet addiction disorder), Kimberly Young, fondatrice del Center for Online Addiction statunitense, ne ha individuato cinque tipi (Young, Aiello, Wikipedia), una di queste riguarda proprio la dipendenza da giochi in rete. Più precisamente abbiamo:


1) Dipendenza cibersessuale (o da sesso virtuale).

2) Dipendenza ciber-relazionale (o dalle relazioni virtuali).
3) Net Gaming.
4) Sovraccarico da informazioni.
5) Dipendenza dal computer.

Anche nel caso di dipendenza da internet, come per le dipendenze da sostanze, si distinguono una fase tossicofilica e una tossicomanica. La fase tossicofilica è caratterizzata dall'incremento delle ore di collegamento, con conseguente perdita delle ore di sonno, da controlli ripetuti di e-male, elevata frequentazione di siti preferiti, di chat e gruppi di discussione, idee e fantasie ricorrenti su internet in condizione off line, accompagnati da malessere generale. La fase tossicomanica si contraddistingue da collegamenti prolungati, al punto da compromettere la vita socio-affettiva, relazionale, lavorativa e di studio.


La dipendenza da giochi in rete o Net Gaming comprende una vasta categoria di comportamenti, come il gioco d'azzardo, i videogame, lo shopping ed il commercio on line ossessivo. L'effetto più immediato costituisce la perdita d’importanti cifre economiche, attraverso casinò virtuali, giochi interattivi, case d'asta, scommesse. Nello stesso tempo, può esservi trascuratezza delle attività quotidiane, degli hobbies,delle relazioni amicali e familiari. In questo caso quindi, vediamo che possiamo riscontrare non solo la fase tossicomanica, ma anche condotte che possono introdurre precocemente il minore, in attività che appartengono al mondo dell’adulto, predisponendolo a rischi multipli.


Un altro elemento di pericolosità, risiede nell’aggressività, insita nelle caratteristiche dello schermo in genere (TV, computer, game boy): le immagini e le situazioni, si fissano nel bambino senza essere pienamente comprese, perché non sono vissute in prima persona, nella vita concreta. L’effetto scaturito, consiste in un senso d’insicurezza e difficoltà ad affrontare la realtà. Sedersi in poltrona, significa subire una scarica di esperienze non coscienti, che vengono assimilate passivamente e vanno a deprimere la personalità, a creare stati di confusione e angoscia (Barbaglia).


Prima di tutto, è il mezzo stesso ad essere violento, con le sue caratteristiche peculiari: prevalenza dell’immagine sulla parola, velocità di proiezione e movimento delle immagini stesse, alta presenza di stimoli subliminali, assenza o riduzione di tempi “vuoti”, che comportano spazi di riflessione, ecc. Lo schermo cioè induce uno stato di dipendenza e di semi ipnosi, dove le capacità critiche e di pensiero riflessivo vengono drasticamente ridotte, a favore di un pensiero “guidato” e indotto dai vari messaggi.


In secondo luogo, il contenuto dei videogiochi, al pari dei programmi TV, compresi i cartoni animati, veicolano nelle nostre menti contenuti altamente violenti e aggresivi. A riprova di ciò, John Murray della Kansas State University, ha studiato le aree cerebrali coinvolte nei processi dell’elaborazione della violenza televisiva, attraverso decine di sensori posti sul cranio di ragazzi.


Si è osservata l’attivazione dell’emisfero destro ed alcune regioni bilaterali, le stesse che intervengono quando viene percepita una minaccia. Quest’esperienza fittizia quindi, produce gli stessi effetti cerebrali, delle corrispettive esperienze reali. La violenza osservata sullo schermo, viene conservata e immagazzinata nei meandri della psiche, per riemergere a distanza di tempo, all’interno di contesti che possono stimolare reazioni conflittuali. Costituisce una sorta di bomba ad orologeria, pronta ad esplodere, non appena s’innesca la miccia.


In effetti, la violenza nella vita del bambino è presente in vario grado, attraverso una miscela di ingredienti: assenza e disattenzione dei genitori, povertà, discriminazione, violazione dei diritti fondamentali, ecc. Nella realtà, la violenza esiste e circonda i minori, ma “la TV ha un ruolo incisivo perché perpetua la violenza, mitizzandola e insinuandone attorno un alone di approvazione” (Randazzo).


Il videogioco fa ancora peggio, prosegue questo lavoro fondando il proprio divertimento, la propria “memoria del piacere” proprio sull’aggressività e sulla violenza gratuita.I ricercatori dell’università di Iowa in USA, sono anch’essi arrivati alla conclusione che il contatto continuo con videogiochi violenti, condurrebbero a vedere la violenza come un fenomeno normale, una possibile risposta come tante altre.


In queste forme d’intrattenimento si combinano due effetti: il maggior e più facile ricorso al comportamento violento e la minore reattività alle immagini violente, come se fossero sempre più, parte integrante della vita normale. E’ stato per altro visto (wikipedia) che, per sviluppare questa ridotta reattività, sono sufficienti 20 minuti di videogiochi violenti. E abbiamo già verificato, che i nostri bambini superano di gran lunga questo tempo!


L’esposizione continua inoltre, aggrava ulteriormente la conseguenza degli effetti negativi sotto varie forme, proprio in quanto stimolo costante e penetrante.


Sulla base dei risultati emersi, i principali effetti derivati dalla visione di spettacoli violenti, sembrano essere:

- aumentata accettazione della violenza
- desensibilizzazione ai danni-sofferenze, sperimentate dalle vittime di violenza
- aumento della propensione al comportamento aggressivo
-degradazione della rappresentazione della realtà sociale (vissuta come minacciosa, pericolosa, pervasivamente violenta).

Molti ricercatori ci ricordano che, la direzione causa-effetto di questo legame, visione violenta-comportamento violento, non è determinata in modo certo. Ovvero potrebbe anche essere vero che bambini più aggressivi e ansiosi siano maggiormente predisposti, verso programmi e videogiochi violenti e non il contrario.


In ogni caso, la relazione fra questi due fattori è forte ed è pericolosa. Che il gioco crei una maggiore facilitazione nei confronti della violenza o sia soltanto una scelta secondaria, non cambia la criticità della situazione, il fatto che non si aiuti il minore, tanto meno gli individui già problematici, a trovare rassicurazione e stabilità, ma li si predisponga ad un riscontro delle proprie angosce e aggressività interne, in un mondo fittizio ed illusorio.


A riprova di ciò (luduslitterarius), si sono verificati disturbi crescenti nei bambini in età scolare, che usano videogiochi, attraverso il computer, la playstation o il gameboy, per almeno un paio d’ore al giorno. Fra questi si annoverano: disturbi del sonno, con incubi, brutti sogni e improvvisi risvegli notturni. L’ultimo modello della Playstation 2 per altro, è provvisto d’istruzioni che mettono in guardia dal suo uso prolungato, come possibile causa di attacchi epilettici. Il primo caso documentato di attacco epilettico da videogioco infatti, risale al 1981 e la prima indagine su campione, relativa agli effetti sociali dei videogiochi violenti è rintracciabile nel 1987.


Il fenomeno quindi non è nuovo, bensì già conosciuto, studiato e tenuto un po’ in sordina, a discapito della salute dei nostri minori. Questi bambini infatti, risultano più aggressivi, poco inclini ad aiutare e donare, più ansiosi, disturbati nello loro funzioni vitali, emotive e a rischio rispetto a disturbi e malattie altamente debilitanti. Nonostante siano noti tutti questi effetti già da un ventennio, non sono cambiate le abitudini, le regole di visione, i tempi e l’attenzione a ciò che i bambini assorbono.


A livello neuropsicologico (città invisibile), le capacità implicate sembrano essere attenzione, concentrazione, memoria, riflessi, ecc. Ciò che non è chiaro è l’impatto, i danni, i benefici e la durata. Ad esempio, è stato visto che i videogiochi rafforzano alcune capacità, ma non è provato che gli eventuali benefici si rafforzino automaticamente anche alle attività non implicate nell’uso del computer. Un effetto indubbio è la tendenza ad essere concentrati e focalizzati su quel mondo, a discapito degli eventi della vita reale.


Ciò produce un isolamento, una distorsione percettiva, un distanziamento dalla realtà, una sorta di stato allucinatorio, una riduzione del pensiero creativo, una passivizzazione del corpo e un’aumentata automatizzazione dei gesti. In definitiva, un quadro che assomiglia molto ad uno stato autistico o simil psicotico, caratterizzato da un profondo distanziamento dal corpo e dalle emozioni.


Volendo guardare condizioni ed effetti meno drastici, possiamo semplicemente ricordare che il videogioco favorisce una stimolazione del cervello, inducendo ad agire diversamente dal solito, a causa dell’immediatezza del messaggio visivo fornito dalle immagini, rafforzato dagli effetti piacevoli, indotti dall’attivazione del circuito dopaminergico (Steven Johnson). L’attività conoscitiva stimolata, è assai simile a quella del metodo scientifico e prevede un ciclo di: indaga, ipotizza, reindaga, verifica. Di primo acchito può sembrare una grande acquisizione, un salto evolutivo, in realtà, trattandosi di bambini ed adolescenti, quindi d’individui in via di formazione cognitivo-emotiva, costituiscono un ostacolo ai normali processi evolutivi.


Già a livello di apprendimento scolastico si riscontra l’effetto immediato sulla comunicazione dell’ insegnante e ancor più dei testi scritti, vissuti come linguaggi incomprensibili, perché strutturati su canali diversi da quelli prettamente visivi.Ormai la realtà multimediale è entrata prepotentemente nella vita dei nostri ragazzi: sempre più bambini possiedono cellulare e videogiochi, che portano sempre con sé, li tengono accesi ed utilizzano anche la notte. Sempre più adolescenti svolgono i compiti scolastici con il cellulare in mano, con la TV accesa e il computer sotto controllo, per non perdere eventuali messaggi, notizie e novità.


Sempre più i videogiochi fanno parte della vita di ciascuno. Ancora una volta i dati ci sono testimoni (wikipedia): la fascia anagrafica più cospicua dei videogiocatori è compresa fra i 16 e i 29 anni, in Italia l’età media è di 28 anni, ma in alcuni paesi come nel Regno Unito, arriva fino ad un massimo di 49 anni! In Italia il numero di possessori di una console è di 8 milioni. Per la prima volta nella storia infatti, quest’industria ha superato nettamente in fatturato della musica e in alcuni paesi come gli Stati Uniti, la vendita di videogiochi ha surclassato quella dei biglietti delle sale cinematografiche.


Infatti, oltre a vari effetti sul sonno, sulle capacità neuropsicologiche, sullo stato di salute emotiva, ecc., questo nuovo mondo ha un evidente effetto sulla socializzazione, nel senso di ridurla ed impoverirla. Le persone, dai piccoli ai grandi, sono sempre più rinchiuse nelle loro abitazioni, al massimo scambiano virtualmente, attraverso giochi con partner pseudo-reali, con identità fittizie.


Questo nuovo mondo ha catturato un po’ tutte le fasce di età, ma qui ci occupiamo in particolare di minori, perché l’effetto su loro è maggiormente evidente e devastante. Primo fra tutti l’effetto sulla personalità, che continua a costruirsi su parametri artificiali, come quelli dettati dalla televisione, da internet, dagli spot pubblicitari, che tanto si affannano a proporre un modello di vita ideale, confuso con quello della vita reale.


Sempre più viene esaltata l’immagine, a discapito dell’essere e del sentire, un’immagine non dettata da esigenze reali del corpo e della psiche, ma dall’esterno, da esigenze del mercato, della moda e del potere. Immagine modellata attraverso l’usa e getta, l’acquisto di oggetti alla moda e il cambiamento artificioso, attraverso la costruzione di maschere e atteggiamenti.


Con questi presupposti, non può esserci costruzione di una personalità stabile ed integrata, perché non c’è esperienza soggettiva e riparativa, quindi non c’è crescita. Il mondo delle ultime generazioni è sempre più basato e guidato su stimoli esterni: come utilizzare il tempo, quando utilizzarlo, come vestire, come parlare, cosa desiderare, come sentire e cosa sentire, quali e quanti mezzi di comunicazione utilizzare, ecc.


Pensiamo semplicemente ai cellulari, alla loro invasione nella vita di tutti noi, anche in quella dei bambini già a partire dai 6-7 anni. Ancora di più, pensiamo all’uso dei cellulari presso gli adolescenti, caratterizzato da un continuo scambio di messaggi: non si parla più, si comunicano informazioni attraverso parole mozze ed espressioni, che passano per una scatola. La comunicazione è diventata un “gioco elettronico”, che si fa in solitudine con sé stessi, dove si scrive ciò che si vuole, si può tranquillamente mentire ed interpretare ciò che più si desidera, o di cui si ha bisogno di sentirsi dire! Si può persino litigare per sms, senza rischiare nulla, senza coinvolgere il corpo e le emozioni in uno scambio reale, in un pezzo di vita vera.


Non c’è più attesa nel comunicare, non si aspetta più di incontrare l’altro per dire, ma si scrivono pseudo-frasi con l’immediatezza e l’impulso, annullando il tempo di attesa e di ascolto, necessari per imparare a conoscersi e per stare in relazione con gli altri. Esperienza fondamentale soprattutto nella fase adolescenziale, caratterizzata da esplorazione e apprendimento.


Pensiamo poi a tutti gli usi impropri, invadenti e violenti del cellulare, come scattare foto e video ad insegnanti che spiegano, ad amici che fanno sesso, che violentano, picchiano e umiliano, ecc. Tali riprese vengono poi mandate in rete, o passate ad amici, con lo scopo di ridicolizzare, deridere, grandeggiare, eccitare, guadagnare, ecc. In questo caso, il cellulare diventa un’arma esattamente come una pistola o un coltello, perché ha il potere di uccidere, in questo caso di uccidere un valore fondamentale come la dignità ed il rispetto.


Lo stesso dicasi di tutte le ore trascorse su internet, a ciattare, discutere, litigare, corteggiare, amoreggiare, amicare, ecc. Si costruisce di sé l’identità che più ci aggrada e si raccontano “bugie”, cercando di vivere una vita che non è la propria e che in questo modo, non lo sarà mai. Oppure, semplicemente si pensa di riempire il vuoto e la solitudine con relazioni, informazioni, acquisti, attività, sesso “on line”, sprofondando in una condizione sempre più angosciosa e isolante.


Anche la TV, in linea con tutto ciò, propone un modello di vita, una personalità, un fare, etero riferiti, quindi distanti dalla propria reale natura. Il video in genere, da una parte propone, propinando insinuosamente dei modus vivendi, dall’altra isola dalle relazioni e dall’esperienze dirette. Mancando quindi, il confronto con la vita reale, non può essersi c

ompleta consapevolezza di sé, dei limiti e delle risorse, non può esserci cambiamento e crescita.La TV e i videogiochi infatti, possono essere accomunati rispetto a molte caratteristiche distintive: l’effetto ipnotico del video, il distanziamento dalla realtà, la destabilizzazione emotiva, ma soprattutto la violenza come contenuto e come strumento in sé (la velocità delle immagini, il bombardamento combinato d’immagini e suoni, stimoli subliminari, l’assenza di tempi di latenza necessari per la riflessione, ecc.).

Paradossalmente, i “mezzi di comunicazione di massa” sono stati creati per avvicinare le persone, i luoghi geografici, le culture, le etnie, i tempi, ma il triste risultato è un progressivo allontanamento da sé stessi e dagli altri. Siamo sempre più asociali e soli, vittime di violenza esplicita ed implicita!
Per avere le idee più chiare, entriamo più nel merito, dell’oggetto in questione.


In California è stata approvata la legge, che mette al bando la vendita e il noleggio di videogiochi che si basano “sul ferimento grave di esseri umani in maniera specialmente nefanda, atroce o crudele”. Malgrado ciò, molti giochi a contenuto altamente violenti come “Vice City”, circolano regolarmente nei negozi.


Nonostante il pubblico a cui sono diretti è di giovane età, questi giochi istigano comportamenti aggressivi e crudeli. I personaggi proposti, soggetti ad alta identificazione, sono spesso disumani e senza scrupoli.Conformemente a tutto ciò, lo studio condotto dai ricercatori della St. Leo University (Randazzo), ha verificato che i ragazzi di 13-14 anni che passano molte ore sui videogiochi, sono più litigiosi e presentano uno scarso rendimento scolastico.


All’interno della Michigan State University, Renè Weber ha studiato gli effetti dei videogiochi, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI). E’ stato visto che, durante il gioco violento, vengono attivate le aree cerebrali che presiedono alle attività fisiche aggressive, ovvero esiste un legame causale e neurologico fra il tipo di gioco e lo schema di attività cerebrale osservato, caratteristico della cognizione aggressiva. Il cervello quindi, reagisce agli stimoli aggressivi del video, nello stesso modo in cui reagirebbe di fronte ad esperienze aggressive reali, denotando una scarsa differenziazione fra realtà e fantasia.


E’ vero che, non siamo certi che in circostanze di violenza reale, l’individuo reagirebbe con la stessa aggressività con cui reagisce durante la visione del videogioco. In ogni caso, l’individuo si trova in situazioni che vive come aggressive e violente, subendone l’impatto emotivo, che è reale e potente, alla stessa stregua di quello vissuto nella quotidianità concreta. Questa condizione, per quanto creata surrettiziamente, produce degli effetti evidenti, influenzando le cognizioni (idee, convinzioni, pensieri), lo stato emotivo, la propria condizione biochimica (secrezione di adrenalina, cortisolo, dopamina, ecc.)


Di esempi ne abbiamo tantissimi, i giochi a contenuto violento sono sicuramente fra i più gettonati. Uno di questi è Gears of War, gioco che unisce elementi di guerra, orrore e fantascienza. Racconta di una civiltà umana, convinta di aver raggiunto un livello di civiltà che le permette di vivere in pace, fino a quando si scopre l’esistenza di mostri annidati nelle viscere della terra, che costringono gli uomini ad una guerra lunga e faticosa.
Con la motivazione di “difendersi”, la distruttività umana raggiunge livelli elevatissimi, rendendosi assai simili ai mostri da cui ci si protegge.

Il gioco può durare 8-12 ore, nel suo corso si possono devastare strutture architettoniche bellissime, smembrare corpi, tagliarli con la motosega, producendo schizzi di sangue ovunque, far esplodere o frantumare teste, ecc.Gears of War viene presentato come il gioco più gratificante su questo pianeta, inneggiandone “la bellezza della distruzione”, è accompagnato da textures finitissime, cura maniacale dei dettagli, movimenti fini, volti “veri”.

Tutto ciò è assai allarmate, perché rende la violenza reale e vicina all’esperienza di ciascuno, avvicinandola e istigandola nella realtà. Del resto, ciò che è successo alla High Schooal Columbine in Colorado né è un esempio: due ragazzini, emulando il gioco Doom, uccisero 13 persone, ne ferirono 23, per poi suicidarsi.

La realtà a sua volta, influisce sui contenuti stessi dei giochi. Dopo la guerra in Iraq, si sono creati videogiochi incentrati sulla lotta fra bene e male. Un esempio Left Behind: Eternal Forces. Ambientato nella New York del futuro, impegnata nella lotta fra infedeli e fedeli. Si verifica il ritorno del messia e la salvezza dei fedeli cristiani, ma diversamente dai testi sacri originali, in questo caso la crescita spirituale, dipende dall’uccisione del nemico.

Per sottolineare la gravità di ciò che viene trasmesso, evidenziamo il commento dei produttori, che lo ritengono un videogioco positivo, perché il sangue e la violenza non sono gratuiti, ma giustificati da fini importanti e profondi.

In realtà, come è stato osservato (Antonella Randazzo), Left Behind sembra la versione in videogiochi, dei discorsi di Bush sulla guerra. Infatti propone gli elementi apocalittici, citati spesso dal presidente americano: c’è il ritorno del messia, la salvezza dei fedeli che vanno in paradiso, la battaglia fra bene e male, affrontata da coloro che devono ancora purificarsi. Sembra ideato per creare futuri soldati e per convincere che l’uccisione di molte persone, sia inevitabile.


Gli ideatori di questo e molti altri giochi a tema religioso, affermano di rafforzare la fede religiosa, che rischia di essere persa. In realtà si esacerba divisioni, odio e intolleranza, verso individui non cristiani. L’elemento comune è l’identificazione col personaggio cristiano, che seppur uccide, appare un vero eroe. Si giustifica, si sminuisce e anzi si promuove la violenza e la brutalità, in nome di un qualche ideale.


Nel gioco Catechumen, il protagonista deve riuscire a liberare alcuni cristiani, prigionieri nelle catacombe e tentare di convertire i soldati romani alla religione cristiana. Questo gioco è stato ben accolto dalle famiglie integraliste cristiane, perché visto come uno strumento che rafforza i valori della fede. In realtà il gioco parte da presupposti di divisione, di necessità di lotta e contrapposizione gli uni contro gli altri.


Rapelay, letteralmente “disposto allo stupro”, rappresenta un altro raccapricciante esempio di gioco che induce in modo diretto alla violenza su altri esseri umani. Il gioco, creato dalla società giapponese Illusion e lanciato nel 2006, è già stato bandito negli USA e in Gran Bretagna, vi sono polemiche in tutte le altre nazioni europee, dove però circola ancora. In Rapelay, il protagonista deve perseguire e violentare una donna, per poi continuare con le giovani figlie. La violenza espressa in questo gioco sembra essere incredibilmente estrema, con dettagli raccapriccianti, come le lacrime e le suppliche delle donne, volte ad evitare la violenza (L. D’Elia).


Un’altra serie di videogiochi è costituito da finte fiabe, con finale horror. Ad esempio Rule of Rose inizia come una fiaba con “c’era una volta”, attraendo anche bambini dagli 8 ai 12 anni. Racconta di una bambina che perde i genitori e si trova da sola ad affrontare la vita e molte difficoltà, che non sono rappresentate solo da persone cattive o strani animali come nelle fiabe, ma da tutta una serie di figure come insegnanti pedofili, bambini violenti e malvagi, morti improvvise e oscuri riti mistici. Tutti, compreso i bambini, appaiono profondamente crudeli e orripilanti. Il gioco quindi, risulta assai angosciante e destabilizzante, privo di elementi che aiutino a tollerare ed elaborare l’inquietudine evocata, infatti non c’è lieto fine né evoluzione costruttiva.


Rule of Rose è stato vietato negli Usa, ma è regolarmente in vendita in Giappone e in Europa.Citiamo inoltre una tipologia di giochi, che esaltano l’onnipotenza e la fuga dalla realtà, illudendo di poter fare qualsiasi cosa, di costruire e guidare nazioni, popoli, edifici, fino alla possibilità di vivere vite alternative.


Un esempio fra tutte Second Life, gioco assai seduttivo e avvincente, che ha riscosso molti consensi. Si ha la possibilità di ricostruirsi un’identità e un’esistenza a proprio piacimento, scegliendo ogni dettaglio come meglio si desidera, si può persino progettare e costruire la propria abitazione, si compra, si lavora, s’instaurano relazioni, ecc.


Un mondo alternativo, dove tutto si costruisce, si vende, si acquista, sulla base del proprio volere. Si può persino evitare di lavorare, acquistando nella vita reale, una comoda carta prepagata alla posta, che nel corso del gioco permette di avere, del contante a disposizione. Non c’è frustrazione, dolore o avversità, ma soprattutto si può negare la propria esistenza, fingendo che tutto vada benone, come si è sempre desiderato.


In questo caso non c’è violenza diretta ed esibita, come nei giochi sopra citati, ma c’è molto peggio, perché la seduzione ammantata da ingenuo intrattenimento, induce a trascorre molte ore della propria vita in una falsa esistenza, tutta ideata dalla mente, priva di un sentire del corpo, che è stato negato e disconnesso, attraverso l’effetto ipnotizzante del video. Uno stato assai simile ai trip, determinati da droghe allucinogene.
C’è una stasi, un rifiuto della propria identità e della propria vita, isolamento dagli altri e di conseguenza il forte rischio di destabilizzare un equilibrio psichico fragile o in via di formazione, come nei bambini e negli adolescenti.


Non solo si trascorrono molte ore a giocare, ma se ne trascorrono altrettante a capire il gioco, a studiare i manuali, a parlarne, lasciando che diventi oggetto quasi esclusivo del proprio tempo libero e spesso anche di quello lavorativo o di studio. Del resto, la non adesione a questi intrattenimenti, predispone al rischio di essere o sentirsi esclusi, perché privi di una “conoscenza” e di un tema di discussione, diventato ormai diffuso e fondamentale, fino all’esclusività.


Quindi, i ragazzi e spesso anche i bambini, sono soggetti ad una doppia pressione: quella del video stesso, con le sue ammalianti immagini, messaggi e quella dell’ambiente sociale, che crea una sorta di spinta indiretta, verso l’accondiscendenza e l’adesione a comportamenti comuni. Il risultato consiste in una pressione incessante ad adeguarsi e uniformarsi, producendo una dispersione inesorabile nella mischia indifferenziata.


I videogiochi quindi, insegnano ad uniformarsi e ad essere dipendenti dai video. Ma ciò che è più raccapricciante, è rappresentato da ciò che invitano a fare nel concreto: ad odiare, maltrattare, uccidere, fare a pezzi, stuprare, a non avere pietà, ad avere paura del mondo e a scappare. Visto così, questo strumento fa proprio paura!


Ogni volta che penso ai videogiochi, mi compaiono due immagini assai contrastanti. Da una parte il video, con tutte le sue caratteristiche: l’aspetto tecnologico, mediatico, la preminenza delle immagini visive in rapido movimento, l’irruenza uditiva, l’effetto ipnotico, passivizzante e  personalizzante. Dall’altro penso alla ricchezza e creatività del gioco, alla sua importanza come ponte, passaggio, come veicolo del proprio mondo interno.

Per il bambino infatti, è un’attività seria, uno strumento che gli permette di esprimere all’esterno il proprio sentire, tutto quel movimento che si agita nel suo interno e che trova un senso, attraverso i confini e i contorni forniti da quest’attività. Come Winnicott ci ha insegnato, la capacità dell’adulto di essere creativo, di poter giocare con le idee, le emozioni e le proprie risorse, deriva proprio dalla capacità, dalla possibilità di giocare nell’infanzia, di spaziare nel “come se” a partire dal transito nello spazio transizionale che diventa sosta e ascolto, grazie a quell’oggetto che assume quel gran potere magico, conferito dalla relazione, dall’emotività, dall’amore del legame, che permette la complicità del “far finta che”, del “e se …?”, del “se fossi”, ecc.

Allora, mettere insieme Video e Giochi, sembra già uno scempio linguistico e semantico. A livello concreto poi, succede che il video fagocita e passivizza l’umano, l’individualità, l’immaginazione, il gioco stesso con il senso ad esso insito. I videogiochi non hanno nulla di creativo, costituiscono sì un ponte, ma verso l’interno e l’isolamento, non verso l’esterno, proiettano in una realtà alternativa, dove non ci sono contenuti ma solo contenitori vuoti e illusori. I videogiochi sono costituiti da rappresentazioni virtuali in movimento veloce, difficili da fermare e focalizzare, quindi privi della capacità di veicolare dei contenuti interni.


L’immagine inoltre, essendo espressione esplicita di contenuti, impedisce lo sviluppo di immaginazione e creatività che, necessitano di un’ambiguità percettiva di fondo, per lasciar spazio ad un lavoro individuale di movimento nel proprio mondo interno, per interagire e trovare un senso a stimoli esterni.


E’ proprio in assenza di informazioni certe ed immagini chiare, che l’individuo è costretto ad attingere alla propria immaginazione, per dare una forma definita a ciò che viene presentato attraverso indizi ed espressioni linguistiche impressionistiche.
Pensiamo invece all’oggetto transizionale, alla capacità di far transitare il bambino dallo stato di veglia e di controllo, a quello di sonno e di totale perdita di controllo.


Il bambino piccolo infatti, è così legato all’immediatezza percettiva, al mondo sensibile esperibile attraverso i sensi, da pensare che ciò che scompare dalla vista (ad es. al momento del sonno) scompare effettivamente dal mondo. Questa condizione suscita una costante angoscia di perdita, lenita e superata gradualmente, grazie alla relazione sufficientemente buona coi genitori e grazie ad alcuni strumenti-strategie, quali appunto l’oggetto transizionale, il gioco ed il gioco simbolico. Immaginiamoci cosa può succedere ai nostri bambini, se gli sottraiamo indebitamente e precocemente, questi strumenti di vita e di crescita serena.


In conclusione, mi chiedo allora, in questo connubio così divorante e distruttivo di Video e Gioco, che fine abbia fatto quest’attività di crescita. Direi che non c’è gioco, non c’è più gioco, né il piacere di stare in questo sentire, in questa “no man’s land”, di vagare in uno stato del possibile, ipotetico e affascinante, che al momento giusto s’incarni in una qualche forma espressiva significante.


Nel VideoGioco, dove i due termini si fondono in una realtà predeterminata, c’è soltanto l’esibizione di qualcosa di già dato, creato e deciso da qualcun altro, all’interno di un medium che non lascia spazio per l’immaginazione e la creatività.
Creando un’immensa solitudine, un comportamento ossessivo divorante e una dipendenza subdola, il video ha sancito la morte della relazione, l’atrofizzazine dell’individuo e la fine del gioco stesso, nel suo significato più profondo. 

Dott.ssa Sabrina Costantini - Psicologa, Psicoterapeuta
Tratto da Psiconline.it