mercoledì, dicembre 01, 2010

LA MASCHERA E L'UOMO

Sezione prima – L’UOMO E LA MASCHERA
Questo testo si può considerare come un’apertura su un percorso originale che si propone di svelare ciò che ciascuno maschera e che gli impedisce di essere quello che è. Significa però rompere con quel, comodo e conformista, modo di essere in cui gli uomini si rifugiano per non pensare, per avere un alibi per la propria piatta quotidianità, che occulta, inganna e distrae impedendo una corretta comunicazione con sé e con gli altri, impedendo di vivere la realtà che è una.
Questo percorso, antico e sempre nuovo, è quello della cultura che si nutre della vita, del sentimento, dell’emotività senza rifiutare logica e ragione. Si tratta di una cultura che pone il simbolo come possibilità di unire ciò che è diviso: lo spirituale con il materiale, il conscio con l’inconscio, il terreno con il celeste, in nome di quella totalità di cui l’uomo sembra avere perduto persino il ricordo.
Il percorso proposto nel testo è una sfida che, servendosi dell’approccio del singolo a vari campi tematici come religione, natura, spazio, potere, vuole proporre il progetto di un pensiero forte per poter accettare la propria debolezza e non debole da rifiutare la propria forza.

Analizzare il tema della maschera non è semplice per la sua vastità di contesti che si collocano in diverse aree geografiche, sociali e culturali. Maschere di vario tipo, uso, carattere e funzione si ritrovano in varie epoche storiche collegate alla vita dell’uomo e della natura e tutte manifestano con straordinaria immediatezza lo sforzo dell’umanità nell’affinare il proprio linguaggio per rendere conoscibili l’inconoscibile. Tanti sono stati gli studi fatti su di esse ma pochi gli sforzi per comprendere il senso intrinseco di questo fenomeno e la sua caratteristica principale che è quella di essere come prima cos un SIMBOLO e di spiegare il desiderio degli uomini di sovrapporre alla propria, tramite la maschera, un’altra identità. La prima domanda che l’autore si pone è se il simbolo sia qualcosa di arcaico e quindi di appartenente alla remota infanzia dell’umanità, oppure se rappresenti ancora un particolare e vitale approccio alla realtà.
Nel primo caso il simbolo viene considerato come un veicolo di un’umanità arretrata, come un qualcosa di lontano e datato. Con ciò il persistere del simbolo nell’uomo civilizzato appare incomprensibile, ma come dice Ferrero è tutt’oggi in uso per comunicare e fissare le idee. Questa è però una versione negativa che mira a razionalizzare tutto. Molti autori ritengono che il simbolo sia un segno linguistico con il quale l’uomo struttura logicamente la realtà e tutto ciò rende il simbolo niente più che una parola e la sua forza espressiva viene depotenziata. Questo approccio toglie al simbolo tutta la sua ricchezza, è come se noi regalassimo al posto di anello (con tutti i suoi significati) il corrispettivo del suo valore in denaro, il valore intrinseco risulterebbe ben diverso.
Nel secondo caso il simbolo appare in tutt’altra prospettiva, è quella in cui nel simbolo parte e tutto si compongono dando luogo ad una indiscutibile unità, esprime perciò qualcosa di più profondo. Jung afferma che il simbolo implica qualcosa di vago, sconosciuto e che unisce i due mondi quello terreno con quello sovramondano, immaginale che altro non è che il mondo degli archetipi che coincide con l’inconscio collettivo. Gli archetipi sono complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente il cui effetto si fa sentire nella vita personale. E’ in definitiva qualcosa di reale che rimanda ad una struttura del mondo non individuabile tramite la consueta esperienza. E’ il modo migliore per esprimere un contenuto inconscio presagito ma ancora sconosciuto. Il simbolo ha dunque una duplice funzione quella essenziale e quella conoscitiva. Con la prima collega diversi settori del reale e con al seconda svela i significati non evidenti all’esperienza immediata. Il simbolo va intuito e conosciuto per via analogica e tramite questa percezione è possibile comprendere la rappresentazione della totalità veicolata dal simbolo.
L’autore passa poi all’analisi della MASCHERA che è qualcosa che rappresenta una identità che si sovrappone all’uomo. Tale identità rimanda ad una figura diversa da quella che la indossa, dotata di una sua esistenza autonoma e significativa, Il pericolo è che si possa raggiungere al drammatico ed irreversibile fenomeno di inversione di ruolo tra l’uomo e la maschera, fenomeno che genera disturbi alla psiche. La maschera, il cui concetto si fonde con quello del simbolo, esprime l’inconscio collettivo, o meglio, è una forma, un segmento, un’immagine dell’inconscio collettivo e questi altro non sono che gli archetipi. Quindi quando un individuo indossa una maschera assume o tende ad identificarsi con i modi archetipici di essere e con i relativi comportamenti che la maschera simboleggia. La forza vitale condensata nella maschera può impadronirsi di colui che si è posto sotto la sua protezione. Per esempio Jung racconta di un episodio di una festa in maschera dove Hitler si presentò indossando una maschera di Cesare con al quale voleva identificarsi e con la quale si rifaceva alla forma archetipica della sovranità.

E’ quindi utile puntualizzare il rapporto TRA LA MASCHERA L’UOMO E L’INCONSCIO COLLETTIVO. L’uomo delle origini non possiede una sua identità, possiede solo uno stato embrionale di coscienza, non esiste alcun IO cosciente di sé. Il primitivo vive in una situazione mistico/partecipativa all’interno dell’inconscio collettivo che tutto contiene e tutto in sé esaurisce in una perfetta circolarità, quella stessa espressa dall’antica immagine del serpente si morde la coda (Uroboro). Esiste però l’esigenza di affermare la propria individualità ed è ciò che segna il passaggio dal mondo ferino (animale bestiale) a quello umano. La personalità dell’individuo coincide con la rappresentazione archetipica che costituisce l’inconscio collettivo; non appena aumenta il grado di conoscenza dell’individuo diminuisce la necessità della maschera la cui dimensione archetipica si ritira nell’inconscio occupando spazi onirici e fantasiosi, mentre l’identità con il tutto tende a diventare conscia diminuendo così l’uso della maschera fino a scomparire.
Nel periodo del cristianesimo e più tardi nel primo medioevo la maschera appare ancora sporadicamente. Ci si trova in un momento in cui la dimensione conscia ha raggiunto un alto grado di sviluppo e un buon equilibrio con l’inconscio. E’ il Medioevo o ETA’ DEL SACRO in cui il popolo di Dio composto dai singoli cristiani non manifesta più la necessità di indossare una maschera, Il suo modello di riferimento è lo specchio, attraverso il quale si coglie la perfezione divina che è propria anche dell’uomo in quanto figlio di Dio e fatto a sua immagine e somiglianza. E’ l’equilibrio perfetto tra uomo e divino. Ci sono però dei momenti in cui viene meno questo equilibrio perché riemerge la nostalgia delle origini, come le feste dei folli e il carnevale. Sono momenti in cui l’uomo ambisce ad essere interscambiabile con il tutto in conscia sintonia con tutto il cosmo. La Chiesa teme questi momenti e teme le maschere che nell’età del Sacro rappresentano la dimensione conscia. Tanti sono gli esempi dove Dio o gli Angeli prendono sembianze umane. Tramite la maschera Dio si fa uomo e viceversa, elevando così l’uomo. In questi casi la maschera insieme allo specchio eleva l’uomo facendolo incontrare nella totalità con il Divino.
Con il progressivo venir meno del Sacro, l’uomo mantiene la coscienza di sé, ma questa coscienza non più equilibrata con al realtà cerca di distanziarsi dall’inconscio, tende perciò sul fronte della ragione con la con la presupposta totalità. In realtà non si tratta affatto di totalità e l’uomo ricade perciò nella situazione arcaica e necessita di nuovo della maschera che gli possa fornire un’identità. Ma ormai la maschera è priva di un reale rapporto col divino e quindi perde il suo carattere archetipo. L’uomo inizia ad assumere la maschera imposta dalla società, dal conformismo.
L’ETA’ MODERNA E QUELLA CONTEMPORANEA  (POST-MODERNA)  è caratterizzata dalla scomparsa del Sacro e dalla sostituzione di esso con la ragione. L’uomo ha perduto il contatto con il cosmo, con la natura, con se stesso, optando per un rapporto scientifico con la realtà. Questa lontananza dal tutto recide ogni legame con l’inconscio portando all’uomo un enorme vuoto. Egli è ormai dominato dalla società e dalla tecnologia, entrambi surrogati di una totalità. L’uomo è costretto ad indossare una maschera perché necessita di una identità che lo renda partecipe a tutto questo surrogato di totalità. In questo caso la maschera gli è imposta dalla società stessa che disegna un uomo perfetto, sempre sorridente, realizzato ma senza sentimenti autonomi, in pratica un’immagine senza vita. Chi non indossa questa maschera è tagliato fuori dalla totalità. Questa maschera insidia anche i morti (maschera del caro istinto) è ormai la vittoria dello stereotipo. Ma c’è un’insidia ancora più grave, è la tendenza regressiva verso una incontrollabile dimensione inconscia. In questo frangente gli archetipi impongono la loro identità senza distinzione fra bene e male, fra positivo e negativo, con eccessi di buone azione ma con altrettanti eccessi di crudeltà. Questa inclinazione per ora contenuta , aumenterà, accrescendo il rischio di catastrofiche inflazioni psichiche collettive. Per evitare ciò bisogna riscoprire una nuova dimensione di totalità e di equilibrio, una nuova complexio oppositorum, una nuova età del Sacro, in cui conscio ed inconscio possano ritrovare la loro armonia.
Nel ‘700, l’età dei lumi, è il secolo in cui la ragione prende il posto dl divino e vuole governare il mondo. Si pensava che la ragione fosse la figlia stessa di Dio, l’espressione eterna di Dio, più antica e più sicura che scritture e riti; questo era sostenuto anche da Kant che affermava in aggiunta che la ragione fosse un potere di estensione che coincideva con l’uscita dallo stato di minorità dell’’uomo. Come Kant, abbiamo nomi come Roberspierre e numerosi filosofi e monarchi illuminati che hanno perso la convinzione di essere rappresentati di Dio e se il sovrano non è pronto ai dettami della ragione è accusato di tirannia e come accadde a Luigi XVI processato e mandato al patibolo. Alcuni filosofi tentano di tradurre nella quotidianità l’idea della ragione. Quando viene composta la Grande enciclopedia, dai più grandi illuministi (Roberspierre, Voltaire, Turgot, Didrot ecc) la ragione viene santificata e apertamente contrapposta alla religione e spazza via le superstizioni del medioevo.
In nome della santa ragione la società civile prende per sé il giudizio morale, che nel passato era di esclusiva competenza ecclesiastica. La fede interiore diventa una religione in un mondo dove dominano capitale industriale prima, finanziario poi, e la massa assume il ruolo di forza lavoro.
Morte e vita devo essere rigorosamente regolamentati, l’uomo deve essere obbligato per legge, felice in nome della Santa Ragione.
La ragione procede  ancora ad attaccare la religione ed in particolar modo quella cattolica, provocando una brusca accelerazione al processo secolarizzante e la razionalità dell’imprenditoria sostituisce la Grazia medioevale ai fini della salvezza. La ragione si trasforma in un placebo residuale da accettare, solo se funzionale agli interessi della “classe abbiente” La religione si trasforma in una situazione di benessere residuale da accettare solo se funzionale agli interessi della classe più abbiente. Il nuovo credo è il mercato, diventato ormai unico, il vero ed incontrastato Dio.
La scienza oltre ad operare giustamente, miglioramenti di vita, tenta in ogni modo di scardinare le grandi certezze del passato: rifiuta la priorità di ogni autorità spirituale e cerca in contemporanea di screditarne la legittimità. Così la scienza non si perita di teorizzare il superamento di ogni limite morale e religioso, ma si propone di penetrare i segreti più profondi del sapere, tentando di imporre, a qualsiasi costo, il proprio primato: osando l’inosabile.  Ne sono prova identificativa e profetica, a livello letterario sia il racconto di “Frankestein” che  “Lo strano caso del dottor Jekyll e dl signor Hidy”. Tutto deve poter diventare sperimentabile, controllabile e riproducibile secondo la ragione.
Durate la rivoluzione francese la ragione è la simbolica luce solare del progresso contrapposta alla tenebra dell’ignoranza. Essa vuole “liberare il mondo tagliando le catene che lo tengono unito al passato”; nel pensiero controrivoluzionario essa è invece considerata come forza diabolica e disgregatrice. In quel antico modo di concepire la vita, la ragione è solo e soltanto un semplice strumento subordinato all’intelletto, a sua volta collegato tramite l’anima alla più alta immagine di Dio. Non possiede dunque alcuna autonomia, né può averla se non a prezzo di essere confusa con le furbizie del potere tutto teso al vantaggio, all’utile e all’interesse.
Non è causale poi che nel pensiero controrivoluzionario, al ragione considerata come un principio filosofico venga, appunto giudicata una forza disgregatrice e diabolica.
Con l’età dei lumi, si capovolge l’assunto medioevale, si arriva alla convinzione della coincidenza della ragione con la coscienza, con l’Io puro. Ma questo indispensabile meccanismo conoscitivo si attiva a spese dell’uomo che assume la connotazione di un’entità astratta, di un soggetto pesante e formale che coincide con l’oggetto che la ragione assume ad unico principio di riferimento dell’uomo, consacrandosi come l’espressione di un nuovo mito, di una nuova metafisica di cui la scienza è custode, interprete e depositaria dell’uomo vassallo.
L’uomo dipende dalla ragione e in caso contrario cadrebbe nell’incontrollabile; la ragione perciò è l’unica vera divinità e chi va contro queste idee è moralmente condannato.
Per i razionalisti, non esiste alcuna possibilità alternativa al “dogmatismo” della ragione che si configura come una vera e propria moderna Signoria. Per tutti coloro che cercano di sottrarsi a questa Signoria, c’è la riprovazione e la condanna. Riprovazione e condanna che colpiscono coloro che si schierano contro i sacerdoti della ragione, invocando un più moderato atteggiamento, un maggior equilibrio e di conseguenza anche maggior tolleranza.
A fronte di questa vera e propria “tirannia” che segna la storia europea a partire dal ‘700, viene spontaneo domandarsi che cosa essa rappresenti e per quale motivo abbia acquisito questo straordinario ed incomprensibile potere: potere che ne fa un idolo moderno. Storicamente la ragione è stata il motivo dello sviluppo umano; l’uomo tramite la ragione ha preso coscienza di sé come individuo, staccandosi dal mondo uroborico (antico simbolo egiziano e gnostico che rappresenta un serpente o un drago che si morde la coda, è una icona della totalità, dell’eterno e dell’infinito) e delle origini.
Un mondo in cui sia l’individuo che la collettività sono indistinguibili, in una reciproca totale interdipendenza che Lévy ha definito come lo stadio della partecipation mystique: lo stadio in cui domina l’inconscio collettivo.
A questa azione individualizzante la ragione ha portato ad una azione protettiva nei confronti dell’Io: bisognava far in modo di non ricadere nella dimensione partecipativa e mistica delle origini, che causerebbe pulsioni devastanti. E’ ovvio che bisogna arrivare ad una situazione di equilibrio tra conscio e inconscio, tra l’Io e la dimensione ctonia (ctonio=sotterraneo) se ciò non si verifica si produce uno squilibrio ed è quello che accade nell’epoca moderna dove il conscio prevale sull’inconscio causando la disumanizzazione del mondo. Per Jung l’uomo di sente isolato nell’universo poiché ha perso il contatto con la natura e con al sua dimensione inconscia.
Scatta quindi la Legge enantiodromica  (enantios= opposto,dromico= relativo a impulsi nervosi) di Eraclito che  scoprì la funzione regolatrice dei contrari alla quale dette il nome di enantiodromica e con al quale intendeva affermare che ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario. Con ciò si vuole spiegare che a fronte di uno squilibrio tutto a favore della ragione-coscienza-Io, si tenderà ad una progressiva crescita dell’aspetto inconscio che si manifesterà con al sua straordinaria potenza travolgendo ogni cosa.
La ragione non può occupare tutti gli spazi dell’uomo, in quanto negli individui esistono insopprimibili bisogni che essa non è in grado di colmare; sono gli spazi del desiderio, dell’emotività, dell’istintualità, della passionalità, della sicurezza, della trascendenza: tutti presenti ed ineliminabili nella psiche individuale e collettiva dell’umanità.
Se questi spazi vengono compressi all’interno di un ordine logico-razionale si profilano di rischi. Dapprima si avrà un disagio personale che tenderà a mutarsi in complesso dando vita a situazioni nevrotiche facilmente mutabili in psicopatologie. Questo meccanismo si innesca non solo a livello individuale  ma anche a livello sociale e quindi a livello politico. Non meraviglia allora che il corpo socio-politico viva in maniera malata lo squilibrio causato dalla priorità della ragione e la storia conferma tristemente la legge enunciata.
Gli effetti sono devastanti e minacciano letteralmente il grande corpo sociale e politico.
Negli avvenimenti della rivoluzione francese, una iper-razionalità causata dall’ideologia illuminista, corrisponde ad una vera e propria epidemia simbolica che si manifesta con una irruzione incontrollata dell’inconscio nella coscienza collettiva; irruzione che prende poi corpo nei sanguinosi eventi della rivoluzione stessa e che fa sorgere e proliferare nel ‘700 società iniziatiche ed esoteriche.
L’inconscio prende il sopravvento per estremo opposto alla ragione.
E’ con l’epoca dei lumi che prende corpo e significativo avvenimento del razzismo; fenomeno culturale, sociale e politico che appare come l’esatto opposto dei valori razionali e dei presupposti della ragione, ma che inizia a diffondersi proprio dall’età in cui la ragione ha il suo trionfo.
Il maggior epicentro di tale fenomeno è la Germania, il paese in cui più di ogni altro è attecchito il culto della ragione: patria per eccellenza della ragione.
C’è da fare una premessa: il razzismo non nasce nel medioevo come molti credono, è vero che le popolazioni erano perseguitate ma lo erano in nome della religione e non certo per differenze biologiche, fisiologiche o ideologiche. Questo vale anche per gli stermini iniziali delle popolazioni pre colombiane.
Il razzismo ebbe le sue fondamenta sia nell’illuminismo sia nel risveglio religioso del XVIII secolo; esso fu il prodotto dl profondo interesse per un universo razionale, per la natura e per l’estetica, ma anche dell’esigenza di dare u rilievo alla forza eterna del sentimento religioso e dell’anima dell’uomo. Esso rientrava nella tendenza a definire il posto dell’uomo nella natura e si accordava con la speranza di un mondo ordinato, sano e felice. Il pensiero razzista fece un tutt’uno dell’aspetto esteriore dell’uomo con il suo posto nella natura e i corretto procedere del suo spirito.
Ne viene che tutto ciò esteriormente appare diverso da uno standard stabilito e perciò differente in senso negativo ad un modello ideale e comprova l’esistenza anche di un deficit spirituale. Progressivamente questa convinzione si colorerà di una luce obiettiva, di una valenza scientifica: diventa una “verità scientifica”. Si delinea uno stereotipo razziale che tende ad affermarsi nella società, indipendentemente dalle ideologie, convinzioni personali, opinioni politiche e religiose dei singoli.
Nel ‘700 si scopre che la culla di tale fenomeno è la Germania dove, appunto, il culto della ragione aveva maggiormente attecchito. Tutto ciò che esteriormente appare diverso da uno standard arbitrariamente stabilito, rimanda direttamente ad un deficit spirituale. Tutto ciò che è ritenuto primitivo è considerato a livello inferiore; questa tendenza di pensiero si consoliderà in tutto l’800 diventando una sorta di verità scientifica. Molti autori e scienziati, tendono a provare scientificamente l’evidenza di questa diversità trovando ogni sorta di trucco, sotterfugio. La razionalità tende quindi ad un perverso automatismo che in pochi decenni verterà in qualcosa che sicuramente razionale non è e che porterà enantiodromicamente l’uomo a macchiarsi dei più feroci delitti.
Se questo è il pericoloso trend  che caratterizza il sociale, altrettanto si può dire per ciò che riguarda l’interiorità del singolo. L’individuo legge la parola interiorità (l’antico spazio sacrale in cui si realizzava l’unione tra l’umano ed il divino) come una semplice metafora della coscienza sociale; non si distingue da quella coscienza che è a sua volta il punto supremo a cui l’umanità può pervenire nel suo millenario e progressivo percorso.
Ma la coscienza è solo qualcosa di relativo. E’ il modello economico, tecnologico-industriale che procede ad una razionale esaltazione dell’immediato, del contingente, del denaro, del successo: in ogni modo, ad ogni condizione, ad ogni prezzo.
Quanto più la pubblicistica, l’iconografia, la letteratura e la filosofia esaltano il mondo superiore, uranico, solare della ragione, tanto più sprofonda nel baratro della realtà, dominata dalla razionalità dell’economia, fatta di disagio, intolleranza, incapacità, crudeltà disumanità, follia; ormai solo per il denaro si vende l’anima al diavolo.
L’umanità nel 19° secolo, soprattutto quella occidentale, privata di punti di riferimento, estranea ad ogni sistema simbolico, illusa di giungere in breve tempo al progresso totale, si trova in un drammatico vuoto: il nulla considerato dagli antichi sinonimo del caos, del diabolico. Un nulla che per enantiodromico movimento verso il proprio contrario cerca di essere colmato in qualche modo. Così il vuoto lasciato dalla ragione viene colmato dai mostri e dagli angeli delle profondità archetipiche dell’inconscio: il mondo dell’irrazionalità.
Questo produce effetti imprevedibili sia a livello sociale che a livello individuale, primo fra tutti quello che rendo gli uomini, immediate prede dei fantasmi archetipici dell’inconscio, che irrompono nella psiche, sia individuale che collettiva, con effetti devastanti.
Si ha però un’inversione di marcia, si riscopre l’amore per la terra e il naturale e tutto ciò per sentirsi ancora uniti ad un qualcosa; dallo stesso sangue per esempio, dalla stessa lingua, e tutto ciò che è diverso viene considerato nemico.
E’ il nemico che insidia la compattezza e l’unità del gruppo e che vuole violare la comune madre archetipica e divorarne i figli.
In un simile contesto, l’altro assume connotazioni inimmaginabili e diventa il contenitore in cui racchiude i mostri, le paure, le ansie, le nevrosi: insomma tutto il negativo prorompente allo squilibrio della sfera coscienziale e ai sogni della ragione.
Si verifica nel caso tedesco una situazione  particolare ed esemplificativa.
Succede allora in Germania che la borghesia ebraica sulla scia delle convenzioni razionali-illuministe, cerca di integrarsi alla classe borghese allontanandosi dai propri usi e tradizioni, emancipandosi con la ragione. Lo spirito tedesco che viaggiava ormai verso il caldo abbraccio della Madre Natura, in preda ormai alla potenza dell’inconscio collettivo, riconosce come avversari tutti coloro che si comportano in maniera opposta. Più l’ebreo razionalizza pensando di avvicinarsi al pensare del popolo tedesco, più si estranea fino a giungere ad una distanza massima. E’ il momento in cui i tedeschi ed il loro inconscio collettivo è invaso dalla potenza delle figure archetipe che non distinguono il bene dal male, essendo espressioni istintive, immediate, passionali. L’ebreo diventa allora l’ostacolo naturale che bisogna abbattere e lo si abbatte sfruttando tutto il sapere acquisito dalle scienze. La macchina della shoa  (annientamento sistematico di un popolo) è ormai innescata, il seguito è storia ornai nota.
Una piena e totale irrazionalità che si è sviluppata enantiodromicamente dalla ragione dando come frutto: Auschwitz.





“Il mondo è tutto unitario e di conseguenza la natura, che ne è l’espressione sia una totalità armonica, coesa, interconnessa ed animata in tutte le sue manifestazioni”, cantava il romantico Goethe nella sua opera “Faust”; ma che è tuttora presente nella speculazione dell’olismo (concezione secondo la quale ogni realtà complessa va considerata come un tutto, superiore e qualsiasi autonomo dalla somma dei componenti).Goethe durante un viaggio in Italia (1786) fa tappa inizialmente a Padova dove, durante la visita ad un orto botanico, ammirando un’antica palma, sviluppa l’ipotesi che tutte le forme delle piante si possono far risalire  ad una pianta unica; è l’idea della pianta originaria: la Urpflanze. Questa sua ipotesi matura con delle successive riflessioni sempre contemplando la flora mediterranea in altre città italiane. Elabora questa ipotesi dopo il suo ritorno in Germania ed egli arriverà ad affermare che quest’idea è applicabile a tutti gli esseri viventi; richiamando perciò la stretta unione tra l’uomo e la natura, tra spirituale e materiale. La Urpflanze gli appare come una pianta ideale o meglio come un archetipo della pianta e come sottolinea Stefano Zecchi è un’immagine che rappresenta la possibilità di sviluppo di una pianta, un modello si sviluppo, come pensava Goethe, e non qualcosa di statico ed immoto.
Il tentativo di Goethe (anche con altre teorie es. quella dei colori) va nella direzione della totalità naturale, altrimenti irraggiungibile. Totalità presente nello stesso modo sia nelle scienze naturali che il quelle dello spirito.
Partendo dall’immagine dinamica e simbolica dell’archetipo, l’dea della vita si proietta sul cosmo sia nella sua generalità che nella sua particolarità, attribuendogli un significato. Il corrispondente della Urpflanze goethiana è l’albero del paradiso terreste, è l’albero della vita che è fonte di rinnovamento e di saggezza. Si identifica con la croce di Cristo che è l’albero per eccellenza da cui nasce la vita interiore ed esteriore dell’uomo e lo si può riscontrare in tutte le religioni. L’archetipo erboreo appare come una delle chiavi della vita, come un potente schema interpretativo del mondo, (mi ricordo un corso che feci sulla Cabalà e sull’astrologia interiore, che si parlò di albero della vita come rappresentazione grafica di un programma secondo il quale si è svolta la creazione dei mondi e il cammino dei popoli per arrivare alla loro attuale condizione), è il simbolo del mondo nella sua originaria congiunzione di cielo e terra, è l’armonia stessa di superiore e inferiore, e la sua dinamicità e creatività.
Quanto è riferibile alle piante, una delle prime manifestazioni della vita organica, sembra essere riferibile anche alle pietre che apparentemente prive di vita e valore spirituale, viene però considerata la prima matrice degli uomini in quasi tutte le tradizioni simboliche dove le pietre sono considerate vita e creazione. (mito di Deucalione e Pirro che per ripopolare il mondo, dopo il diluvio voluto da Zeus, gettarono pietre che si trasformarono in uomini e donne. La pietra genera anche altre pietre, sviluppa una vera e propria gravidanza nel ventre della Terra. Le pietre sono quindi paragonate agli alberi e quindi agli uomini è perciò anch’essa l’immagine dell’archetipo della Grande Madre.
La funzione archetipica tende ad accumulare sia l’inorganico che l’organico. Tale funzione dà luogo ad una sorta di gigantesco deposito in cui si conservano immutate le forme del vivente espresse in valori numerici o in immagini e in questa prospettiva si può pensare alla natura come una totalità in cui il singolo fenomeno si fonde con l’insieme; una totalità che alle sue origini è inconscia ed è in grado di esistere indipendentemente dal livello di conoscenza che possiede di se stessa.
Gli archetipi, in quanto strutture dinamiche, sono alla base di un processo continuamente trasformativi che dà luogo a mutamenti sostanziali: l’eternità della forma non impedisce la radicale modificazione della sostanza. Un esempio pratico si può trovare nell’osservare alcuni rituali di accoppiamento degli animali, ed esempio l’uccello lira cambia sia il suo aspetto che il modo consueto di comportarsi, utilizzando standard di comportamento del tutto ininfluenti al fine del corteggiamento vero e proprio. Questi standard lasciano intendere che all’interno della sfera archetipica esiste una tensione inconscia verso uno stato sempre più conscio dei propri comportamenti; questa tendenza può portare perfino al mutamento dell’istinto. Il comportamento rituale, sostanzialmente ripetitivo, ha lo scopo di incanalare l’istintualità del comportamento rendendolo sempre più conscio.
In questo caso è utile notare come gli uomini nello stato primordiale della loro esistenza sperimentano nella loro quotidianità con cose inanimate o apparentemente inanimate e con cose animate; gli esseri umani scambiano se stessi con le cose e viceversa, tanto da identificarsi con l’animale totemico della tribù o del gruppo sociale e di esso fanno propria la ritualità come modalità esistenziale. Con questa particolare ritualizzazione l’uomo sviluppa la facoltà di espressione per immagini e la facoltà simbolizzante ed infine si percepisce come individualità autonoma, ponendo le basi della coscienza di se stesso e del suo ruolo nel mondo.
Il Genesi insegna una storia dove l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio è pienamente cosciente di sé, delle sue capacità creative e del suo dominio sulla natura. La necessaria superiorità del conscio tende a ribaltarsi negativamente sulla natura che viene ridotta a manifestazione cieca e pericolosa delle forze ancestrali ed inconsce che si contrappongono al conscio, connotandosi come incontrollate. E’ questa l’eredità residuale dell’antica totalità della natura; totalità che il regno del conscio tende a negare producendo così effetti negativi. 




Sezione seconda – IL DUPLICE VOLTO DEL POLITICO MODERNO

Vi è un avvenimento nel 1793 nella rivoluzione francese che segna nell’immaginario collettivo dell’epoca l’inizio della fine della Francia monarchica. Un deputato della convenzione del Basso Reno infrange sotto i tacchi delle sue scarpe la sacra ampolla in cui il crisma veniva usato per consacrare i re di Francia. Sacra Ampolla che secondo un’antica tradizione si riteneva donata da un angelo a San Remigio a perenne difesa della sovranità legale, la cui rottura sembra aver provocato la liberazione di un demone orrido e bifronte che estende la sua ombra minacciosa sul mondo, generando ansie angosce e incubi. L’accaduto in taluni suscita la definitiva scomparsa dell’antico regime fondato sul diritto divino, in altri quasi addirittura la repulsione per una sorta di parricidio al pari dell’uccisione di un legittimo sovrano che rappresenta un ordine simbolico, un modello di vita, di sapere e di conoscenza.
Per altri è invece fonte di gioia ed esultanza in quanto vissuto come l’inizio di una nuova era, quella dell’uguaglianza, della fraternità e della libertà.
Questo demone liberato con la rottura della sacra ampolla, al  pari dell’antico Giano possiede due teste:
a)    una rivolta al futuro: quella del rivoluzionario, il cui carattere è la fede nell’uomo, nelle sue qualità e nella speranza nelle sue risorse, speranza nel progresso, nella scienza; vale a dire un ottimismo contraddistinto da una intangibile fede, quella della RAGIONE, ragione che guida l’uomo e che ne è l’unico punto di riferimento.
b)   Una rivolta al passato, che è la testa di quello che politicamente si potrebbe definire come un conservatore che coincide con il profilo di un distinto e vecchio signore che giudica gli uomini e le cose del mondo con il disincanto dell’età, dell’esperienza e della conoscenza degli eventi.

E’ ovvio che sia il rivoluzionario che il conservatore rappresentano due figure che servono da modello e che possono essere utilizzate a scopo esclusivamente rivolto ad individuare nuovi dati e verità.
Per il rivoluzionario la storia è un divenire rivolto al futuro, dove passato e futuro si fondono per creare l’escatologia della modernità (l’insieme delle dottrine che riguardano il destino dell’uomo dopo la morte), in cui le tenebre sono un tutt’uno con il passato e con la corruzione, che deve essere superata. Per il conservatore invece queste tenebre non sono che la trascrizione della luce, la luce nascosta che tutto rischiara, tutto ciò che appartiene al passato, alla storia, è cangiante e proteico mai unidimensionale e unidirezionale, è ciò che dona una superiore saggezza ed una tranquillità interiore.
Per il conservatore l’uomo è materiale, brutale e inaffidabile in quanto trascinato dalla supervalutazione dell’IO (la ragione), si illude di possedere un mondo che in realtà non controlla, allontanandosi sempre di più dal numinoso. Anzi, al contrario del rivoluzionario che vede l’uomo come le migliori delle creature possibili, lo ritiene come il più temibile degli animali, il più infido il più spietato nei confronti della sua stessa specie perchè oltre alla forza e la caparbietà racchiude infinita astuzia, efferata crudeltà e incontenibile cupidigia. Per questo motivo il conservatore afferma che il supposto egualitarismo, la conclamata fraternità e l’assiomatica fraternità non sono che la costruzione di un intreccio romanzato atto a celare pratiche di dominio, potere e sopraffazione.
Dinnanzi a questo giudizio il rivoluzionario è indignato ed incredulo perchè rifiuta di pensarsi in un contesto di inganno e di ragione strumentale, anche se non gli sfugge che questo non è sicuramente il migliore dei mondi possibili.
Il rivoluzionario progressista ha bisogno per la sua sopravvivenza di una duplice verità, che gli fornisce continuamente la ragione, perchè gli consente di alimentare la certezza e la sicurezza di vivere in un mondo che può plasmare a suo piacimento. Il caso più eclatante è Rousseau il quale, grande intellettuale e pedagogo, nel momento in cui professa la necessità di un’ educazione moderna, elevata e consapevole, non esita a mandare i propri 5 figli in un orfanotrofio.
Il conservatore trova che l’umanità vive nell’illusione di ciò che forse non riuscirà mai a raggiungere perchè persegue miti moderni di libertà, legge, mercato e democrazia che si rivelano evidenti ed indiscutibili parvenze, come dei placebo, che non permettono di vedere in faccia la realtà e che corrispondono alle maschere della commedia umana.
Il conservatore guarda al passato, alle origini, facendo propri i valori delle società della Tradizione, rette da principi trascendenti dove ogni suo dominio è formato dall’alto e verso l’alto.
I rivoluzionari progressisti invece vedono nella tradizione un insieme di forze avverse desiderose di distruggere tutto ciò che può portare alla modernità. Il conservatore guarda alla Tradizione, alle origini, per scoprire uno status ideale in cui l’uomo può vivere l’esperienza della partecipazione mistica con il tutto, con cui si sente in perfetta sintonia, in cui il singolo individuo o la collettività vive in una dimensione che si accorda con il tutto sentendosi in armonia con il mondo sia animato che inanimato, sia spirituale che materiale.
In quest’ottica il conservatore assume le sembianze del bambino che riesce a vivere in perfetta sintonia con il mondo che lo circonda, mentre il rivoluzionario assume le sembianze di un vecchio signore attento alle differenze rispetto a ciò che lo circonda e pronto ad accentuare le discordanze invece che le consonanze.
Il conservatore che guarda alla Tradizione, intravede la possibilità di ritornare a quel momento di pienezza e saggezza che coincide con quello di stato di armonia e di sintonia con il tutto, che lo rende simile a Dio, Totalità che l’uomo ha perduto con la modernità, la conoscenza e la ragione. Per questo il conservatore disprezza o nega la ragione e le procedure logiche che ne derivano; ma non è un rifiuto fine a se stesso, è che reputa la ragione un semplice ausilio non decisivo che accetta solo ciò che “sale” la via che va verso tutto ciò che è conscio ma che rifiuta tutto ciò che “scende” cioè tutto ciò che appartiene alla sfera dell’inconscio, dell’emotività, della sensibilità, dell’istinto.
Il conservatore guarda quindi al passato perché considera la memoria un tessuto di simboli in cui esprime il mondo in cui lui stesso è parte attiva. Il rivoluzionario invece guarda al futuro, trascurando il passato, e sottovalutando il presente, e quindi si rivela incapace di coniugare i valori di cui afferma essere portatore con la realtà, perché è un insicuro e solo nel roseo mondo dei sogni si sente a suo agio. Il conservatore non teme il compromesso, ne l’uso della diplomazia. Anzi cerca di mostrare sempre un atteggiamento equilibrato, senza per questo sfuggire però, quando è necessario, all’ira, alla violenza e alla forza.
A volte si tende ad accomunare il conservatore con il reazionario causando confusione. In realtà sono due entità differenti. Il reazionario che considera il passato come un futuro al contrario, e perciò chiede conferme al passato, forza crudelmente la realtà per paura di non trovarvi ciò che è in sintonia con le sue convinzioni. Quindi si può affermare che il rivoluzionario progressista e il reazionario sono simili, portatori di una verità che essi stessi hanno creato e che vogliono convincersi che sia la vera e l’unica, e per questo sono del tutto inaffidabili perché scambiano storia e realtà con le proprie opinioni.
Il conservatore invece è del tutto affidabile. Le sue analisi sono lucide e pertinenti e il suo senso della realtà perfetto. Da quanto appena detto emerge che il conservatore è un solitario che non rimpiange ne status sociale, ne denaro, onori, gloria, potere o altro.
Ma a dire il vero anche il rivoluzionario dimostra il coraggio, quello dell’incoscienza, di chi è pronto a gettare ogni cosa, a mettere in gioco tutto pur di conquistare qualcosa che intravede lontano, che coincide con la società, che il mondo diventi come lui desidera. Il suo è un coraggio che non tollera il rimpianto. Mentre per il conservatore il rimpianto è una disposizione dell’animo, come ad esempio il rimpianto della perdita della totalità, dell’origine, anche se recuperabile nella memoria.
La morte simbolica per il conservatore è un mezzo che prelude alla rinascita della vita, mentre per il rivoluzionario, che comunque non teme la morte fisica, la morte simbolica non ha significato alcuno, anzi la ritiene insensata, al contrario del conservatore che la ritiene uno stato di illuminazione dove il rimpianto assurge ad un elevato livello di saggezza.
La cultura della morte per il conservatore non è qualcosa di fisso, angosciante, malato, ma è qualcosa di dinamico, un qualcosa che apre alla vita perché secondo lui vita e morte si integrano tra loro in un ciclo eterno in cui la morte si pone come rivelazione dell’origine della vita.

L’ARCHETIPO DEL DIO GIANO
E’ un dio di origine indoeuropea ed è una delle più antiche divinità del tempio romano. Giano è un dio misterioso ed arcaico, nato dal CAOS e come tale è considerato l’iniziatore del ciclo temporale e del tempo storico. E’ il signore degli inizi, come si può evincere anche del nome del primo mese dell’anno. In questa veste è il custode delle due porte solstiziali che sono potenti simboli di passaggio, quello estivo (dove si entra nel mondo della genesi e della manifestazione individuale) e quello invernale (dove si accede agli stati sopraindividuali). Il suo carattere solstiziale gli assegna il primato degli dei: è il dio degli dei. I romani infatti lo chiamavano Ianus Pater cioè creatore degli dei, del cosmo, degli uomini e delle loro azioni. E’ il motivo per cui Giano è rappresentato come detentore sia della bacchetta che della chiave che saldamente tiene in pugno, entrambi simboli del guardiano della casa; ma sono anche contrassegni del potere regale (bacchetta) e sacerdotale (chiave) che perciò fanno rappresentare Giano come una sorta di re del mondo e quindi come colui che consente l’accesso alle più alte segrete verità, se non alla verità stessa. Giano è quindi una divinità altamente positiva, anche se in seguito è stato considerato ambiguo (un demone). Ma Giano ha anche un compito creativo e magistrale perché permette la nascita dell’embrione e soprattutto insegna all’umanità le nozioni della coltivazione, introduce la moneta, favorisce gli scambi, stabilisce leggi e religione. Egli possiede un terzo volto invisibile che oltre a fargli scrutare il passato ed il futuro lo fa guardare all’eterno presente e che è l’occhio della totalità. Giano si presenta quindi come la luce del presente, la sicurezza del passato e la speranza del futuro, rappresentando una compiuta unione degli opposti. E’ insomma un dio della totalità che si esprime nell’unità perfetta ed armonica e quindi è portatore di ogni bene e di ogni pienezza. Coincide con quello che Jung definisce il Sé, cioè che unifica gli aspetti consci e quelli inconsci dell’uomo. L’antico Giano si ripropone come il detentore della chiave della saggezza e il portatore della bacchetta dello psicopompo cioè di colui che traghetta le anime verso i lidi di una superiore verità (come Ermés o Caronte). L’uomo deve quindi innalzarsi al di sopra di ogni contraddizione ed immedesimarsi in ciò che Giano rappresenta.
In quest’ottica bisogna vedere come il conservatore, per non rimanere imprigionato esclusivamente nel passato, possa incarnare questo archetipo. E’ necessario che memoria e rimpianto, caratteristiche del conservatore, si fondano con l’ingenuità razionale propria del rivoluzionario, che è un sognatore, così come la luce del giorno si deve fondere con le tenebre della notte, come l’individuale si deve fondere con il collettivo.
Insomma il conservatore e il rivoluzionario devono trovare un equilibrio perfetto in cui la visione ottimista si possa armonicamente legare a quella pessimista. Per ottenere questo risultato è necessario cancellare quello che la rivoluzione francese ha voluto significare. Bisogna ricomporre i frammenti della sacra ampolla spezzata, cioè instaurare un nuovo regime che riesca a contemperare un ordine simbolico in cui il sacro possa essere cemento unificante di diverse persone e molteplici collettività, in cui il primato conscio si fonda armonicamente con la presenza dell’inconscio in modo da rendere conto di una totalità in cui l’uomo e il mondo possano sentirsi una cosa sola. Questo implica che il rivoluzionario accetti la memoria ed il rimpianto del conservatore e che il conservatore veda nel futuro la possibilità di affermare valori eterni, cioè che il futuro sia qualcosa come di provvidenziale che spazza via il superfluo per riaffermare ciò che forma il saldo fondamento delle cose.
In questo modo, il coraggio del conservatore e l’incoscienza del rivoluzionario appaiono come l’ancipite volto del Sé, al pari dei due volti del dio Giano, signore degli inizi. D'altronde per entrambi la vita dell’uomo e del cosmo non può essere che un perpetuo ed incessante inizio.

SPAZIO E POTERE
Questi due termini hanno un rapporto di reciproca complementarietà, cioè la perfetta congruenza tra spazio e potere che è in grado di offrire una dimensione di totalità: l’unica forma di reale conoscenza, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo. Può trattarsi comunque, di un chiasmo (figura retorica nella disposizione incrociata dei termini corrispondenti di una espressione) in questo caso lo spazio del potere e il potere dello spazio.
Innanzitutto bisogna precisare che anche se si è tentato di dare una definizione esaustiva di potere, non è stato possibile ottenere alcun risultato, ossia non c’è stato, e non è possibile avere alcun risultato tale da essere universalmente accettato e tale da essere ritenuto valido da più di un gruppo di persone appartenenti ad una generazione storica. Ci si ricollega quindi a quanto afferma Chiodi cioè che per definire il potere bisogna farlo per via apofatica (per negazione) e cioè che il potere è invisibile e indefinibile, è metafisico, astratto; lo si coglie solo indirettamente attraverso i suoi effetti. Il che rende il potere un oggetto di difficile analisi, sempre sfuggente, pronto a improvvise ed inaspettate metamorfosi. Quindi per comprendere che cos’è il potere è necessario approcciarsi in una prospettiva metafisica, ossia in una prospettiva di totalità. Anche se il potere non è rappresentabile non significa che non possiede il suo spazio che è ovviamente simbolico e che tuttavia possiede una indiscutibile concretezza ed è quindi un tramite privilegiato per palesare il potere. Ciò appare con chiarezza se applichiamo al potere la legge enantiodromica riproposta da Jung. Essa afferma che ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario. Perciò nel caso del potere la sua astrattezza deve necessariamente trovare un sbocco nel suo contrario, cioè in qualcosa di fisico, concreto e materiale e rappresentabile, come lo spazio. Ovviamente la sua spazialità è particolare, concreta e materiale ma di una concretezza e materialità simbolica, altrimenti si corre il rischio di finire nel fantastico, nel magico o nel delirante.
Per comprendere meglio lo spazio del potere è utile focalizzare l’attenzione sulla spazialità del potere divino che si evidenzia nell’immagine del tempio che è il luogo per eccellenza di ogni apparizione o manifestazione della divinità, sia pagana che cristiana. E’ il luogo in cui dimora il divino e l’uomo entrandovi diventa partecipe egli stesso dell’infinita potenza creativa di cui lo spazio è impregnato. Tale centro di potere può assumere le forme più diverse come per esempio Stonehenghe o una Ziqqurat (costruzione tipica alla cui sommità sorge un santuario come a Gerusalemme o a Roma) o un palazzo imperiale cinese come il Ming-Tang. Tutti gli spazi templari, qualsiasi essi siano esprimono la perfetta corrispondenza con la planimetria cosmica, il cui centro è l’ombelico del mondo, lo spazio infinito ed ordinato del potere divino. Per cui chi in essi entra, per loro tramite si santifica partecipando del divino.
Numerosi sono i racconti mitici in cui coloro che entrano nello spazio sacralizzato dalla presenza divina ne vengono toccati e travolti (come per esempio Mosè sul Sinai). Su questo spazio, l’uomo stesso costruisce un altro e più concentrato spazio ulteriormente sacro: è l’altare il cui il dio vi abita, ne è sacrificato o sepolto. Ad esso può accostarsi unicamente il sacerdote che è l’unico in grado di poter sopportare la potenza divina emanata e radicata in quel luogo. Per questo motivo lo spazio sacro simboleggia il cosmo nella sua totalità dove lo spazio tra il vestibolo e l’abside, o la porta d’entrata e l’altare, non è altro che il percorso ideale della porta della morte a quella aurorale della vita. Il senso di proprietà del luogo sacro da parte del potere diretto di Dio, per esempio nella chiesa cattolica, si avverte nel momento in cui il vescovo impugna saldamente il pastorale, che è simbolo del potere, e percuote la soglia di una nuova chiesa da consacrare, invocando frasi rituali. Ma quanto detto per il tempio cristiano, che può anche essere sinagoga o moschea o altri luoghi di culto, può essere anche quello non specificatamente religioso come per esempio un tempio massonico in quanto riveste una simbologia sacrale. Non di meno si può anche considerare il tempio dell’animo che circoscrive lo spazio dell’interiorità, come per esempio il monte Sinai o l’Olimpo, in cui il simbolo della spazialità è vivo e presente in tutta la sua antica potenza, nella profondità dell’animo, perché raggiungere la vetta equivale a venire in contatto con lo spazio interiore, con quel potere invisibile che si può definire simbolicamente come lo spazio del cuore, il tempio interiore, che l’uomo coglie contemplando gli spazi infinitamente grandi del cielo. Non di meno anche contemplando l’infinitamente piccolo, al pari dell’infinitamente grande fa si che si contempli l’ordine cosmico.
Quindi va da sé che lo spazio del potere è indefinito. Si può tuttavia tracciare una mappa riassuntiva simbolica in cui lo spazio incontra il potere o ad esso si sovrappone:
1)     Lo spazio che isola. Può essere rappresentato simbolicamente, per esempio, dal banco dei cattivi o disubbidienti in una classe scolastica o dai quartieri ghetto, lager in un’area metropolitana. Questo spazio può comunque essere in positivo, per esempio lo spazio occupato da un comandante, da un chirurgo, da un maestro o da un politico o comunque solo da chi è in grado o è deputato ad adempiere ad un determinato compito. È uno spazio che lo isola da tutti gli altri, lo spazio della solitudine perché anche se lo innalza o lo distingue comunque lo diversifica.
2)     Lo spazio che circoscrive. È un luogo delimitato in cui si condensa la forza del potere. Può essere un’assemblea, un parlamento, uno stadio, un villaggio, un’abitazione, dove a seconda della forma spaziale assunta rivela un preciso modo di agire e di esistere. Per esempio lo spazio di una casa si modella sul comportamento dei suoi abitanti che può riguardare qualcosa di ben più profondo come per esempio il Feng Shui, cioè la capacità di innalzare una dimora che sia in armonia con il cosmo.
3)     Lo spazio che innalza. È lo spazio rappresentato dal trono, dal seggio, dalla cattedra, dal podio, dall’altare cioè da tutto ciò che simbolicamente porta verso l’alto e chi vi siede è al di sopra delle parti, mettendosi simbolicamente in comunicazione con la sfera celeste.
4)     Lo spazio che delimita. Tale spazialità spesso esalta il potere di una parte sul tutto e spesso assume un carattere operativo-burocratico. Per esempio è una città, una fabbrica, un laboratorio o la sede di una potente istituzione (come può essere una multinazionale) che domina su tutte le altre mostrandone per comparazione la loro scarsa rilevanza. Ma soprattutto è lo spazio simbolico della burocrazia espresso per esempio dalla metratura della scrivania di un ufficio o dal tipo di arredi che indicano l’importanza di chi li occupa.
5)     Lo spazio che esclude. È lo spazio della tomba, del convento, della caserma. Lo spazio che esclude è altamente temuto. Chi entra nella sua sfera di influenza ne è pericolosamente attratto al punto che tali spazi sono per lo più lontani dai luoghi dove di solito si vive la vita quotidiana, oppure sono coperti da vincoli e tabù. È il caso per esempio degli sciamani o degli iniziati di ogni forma di società segreta.
6)     Lo spazio che condanna. È lo spazio in cui il contatto provoca la totale eliminazione del numero dei viventi. Per esempio è il palco delle esecuzioni capitali, come la stanza della morte, o le camere di tortura o gli scannatoi dei lager o più semplicemente manicomi o prigioni. Ma può anche essere semplicemente uno spazio casuale in cui l’uomo perde la vita in modo impensato come sulla strada o annegato in un corso d’acqua.Tali spazi sono anche l’estremo limite degli spazi del potere che al di là di essi non esiste più, anche se possono esistere altri spazi di tipo metafisico o psicologico.
Questi appena citati sono gli esempi più dimostrativi della tendenza del potere ad estendersi. Il potere è la voce dell’autorità e di un ordine superiore, entrambi del tutto indipendenti dal semplice governare, che molti erroneamente ritengono l’unico scopo del potere. Il potere nella sua indefinibilità possiede una sua intrinseca simbolica fisicità e visibilità in cui lo spazio terreno deve esaltare lo spazio celeste. Da ciò deriva che le più imponenti costruzioni della storia come i megaliti o le piramidi egizie o quelle atzeche o, ai tempi moderni, i grattacieli, i ponti, le autostrade, le dighe, sono in realtà inni alla geografia del potere, indubitabili mausolei di una potenza che aspira a glorificare l’indiscussa autorità, percepita come eterna ed immutabile, autorità della scienza, della tecnica e dell’economia. Ma ci sono anche spazi istituzionali come il Quirinale, la Casa Bianca, il Cremlino o il Vaticano, la cui conquista vale alla legittimazione autoritativa dell’esercizio del potere.
Lo spazio è una potente rappresentazione del potere tale da esprimere quel carattere archetipico che penetra dall’inconscio nell’immaginario collettivo ed individuale determinando a livello del conscio comportamenti conseguenti, a livello sia personale che sociale.
Fino a qui si è esaminato lo spazio del potere. Adesso andiamo ad analizzare il potere dello spazio: è una sorta di dimensione che sta tra  il mondo intelligibile e quello sensibile, la sfera impalpabile e quella definibile, lo spirituale e lo psichico. E’ una dimensione che rende possibile il mondo ma non coincide con il mondo. E’ il motivo per cui Kant lo definisce come lo spazio come forma a priori, trascendentale, dell’esperienza possibile, deve essere originariamente un’intuizione. Pertanto, lo spazio è un prodotto della psiche o dello spirito che si situa nella sfera inconscia. Vista la valenza archetipica dello spazio si possono creare immagini di grande potenza che determinano a livello inconscio atti e comportamenti di grande rilievo che possono innalzarsi alla conoscenza sia sensibile che soprasensibile. Anche in questo caso si può tracciare una mappa simbolica che esprime i livelli dello spazio:
1)      Lo spazio cosmico: determina l’immagine del mondo che influisce pesantemente anche sull’uomo. Per esempio il significato della concezione di sfericità della Terra, rispetto alla concezione che la Terra fosse piatta. Nel primo caso la sfericità rimanda ad un idea di totalità e pienezza che coincide con l’immagine della perfezione divina; è l’espressione di una armonia tra umano e divino, materiale e spirituale, che ha il potere di strutturare il potere degli uomini tra di loro sia a livello politico che culturale. Differente è la concezione della terra piatta che sottolinea la schiacciante autorità del divino che pone l’uomo in un ruolo subalterno rispetto a Dio, Creatore, dominatore, re dei re, assegnando all’uomo una valenza concreta, quotidiana, materialista e negativa rispetto allo spazio e all’extraterreno. Qualcosa che tende quindi a svalutare totalmente la spazialità dell’uomo.
2)     Lo spazio fisico: possiede sicuramente un potere: un potere di interdizione, di coagulo così come ad esempio il cielo è simboleggiato da uno spazio circolare che ha un potere coagulante cioè che esprime la comunità e i valori totali che sono propri. È anche il veicolo di una valenza spirituale, armonica e trascendente che unisce un legame indissolubile di perfezione e protezione, come per esempio la simbologia dell’anello, della corona, delle medaglie, del bracciale, della cintura, della tavola rotonda. Il circolare rimanda ancora alla dimensione di un’unione totale sotto l’egida spirituale. Lo spazio quadrato invece si presenta come qualcosa che determina, limita e àncora al terreno anche seppur mantiene una valenza cosmica. Questo struttura spazi politici e sociali interdicendo tutti coloro che ad essi non appartengono, per esempio il castello, l’accampamento, una città a pianta quadrata. Infine vi è lo spazio nella diplomazia, dove posizioni e precedenze sono regolate da un preciso rapporto di potere, o semplicemente dalla posizione che deve assumere un ospite invitato ad una cena a seconda se si accomoda in un tavolo rotondo o rettangolare.
3)     Lo spazio antropologico. È quello occupato fisicamente dall’uomo ed è considerato qualcosa che riguarda sia una sfera umana che divina. Per esempio l’adorazione delle varie parti del corpo (la testa, gli organi genitali,…), o la divinizzazione di certe posizioni corporee (il tantra,…) o l’importanza di quelle posizioni che rimandano all’attenzione estrema (come l’attenti) o esprimono il più totale abbandono (come la posizione fetale). Ma esiste anche l’idea che la quantità di potere esercitato sia proporzionale alla quantità dei corpi dominati, ed è ciò che ha spinto l’umanità a sottomettere, segregare, schiavizzare o eliminare i corpi nella  convinzione che il loro spazio, per aumentare il potere, debba essere acquisito.
In conclusione si può affermare che lo spazio serve a percepire quello che è o riteniamo sia la realtà, mentre il potere è la forma organizzatrice dell’interazione tra individuo e gruppo. Ma si può anche affermare che il fine dello spazio e del potere non possono essere che quello di veicolo verso la totalità, che è intrinseca nell’uomo, a cui egli partecipa direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente.   

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